martedì 29 marzo 2016

Chi è davvero per la famiglia, oggi?



La famiglia è al centro oggi di un grande dibattito. Purtroppo però tale dibattito non riguarda i modi ed i mezzi per tutelarla al meglio nel contesto economico-sociale attuale ma quale sia la sua stessa natura o essenza.
Non si discute su come fare si che il corpo sociale “famiglia” possa riappropriarsi della sua naturale autonomia ed indipendenza economica da tutti gli altri corpi sociali, Stato in primis, ma di come permettere ai suoi membri di autonomizzarsi e rendersi indipendenti dalla famiglia stessa – il lavoro alle donne come una necessità ineluttabile! -, facendo passare come retrogade e frustrate tutte quelle persone di sesso femminile che invece insistono nel voler essere “donne di casa”, dedicando la propria vita alla famiglia.
Dal punto di vista pratico-economico, si sorvola su fatti incontestabili come quello che indica che il contributo delle casalinghe al PIL nazionale è molto rilevante (“Il super-lavoro casalingo delle donne vale come il PIL della Cina”, Il Sole 24, 13 novembre 2015,, http://www.ilsole24ore.com/art/notizie/2015-11-12/il-super-lavoro-casalingo-donne-vale-come-pil-cina-ma-non-e-pagato-193803.shtml?uuid=ACTOnoYB&refresh_ce=1<).
Invece che disincentivare tale tipo di lavoro andrebbe considerata la possibilità di remunerarlo, secondo un basilare principio di giustizia sociale.
La donna, insomma, dovrebbe essere messa nelle condizioni di fare una libera scelta tra vita domestica e maternità piena da una parte e vita lavorativa e maternità parziale dall'altra, ricevendo un pari e giusto compenso in entrambi i casi.

Ancora, come è possibile dire da una parte di voler sostenere la famiglia e dall'altra incrementare pervicecemente tutte quelle condizioni che rendono di fatto impossibile per i membri della famiglia passare tempo insieme (attività lavorativa delle donne, diminuzione del potere di acquisto degli stipendi in generale)?

E' possibile, se ci rendiamo conto di chi davvero oggi sia in grado di creare e manipolare l'opinione pubblica, inibendo la genuina riflessione secondo il senso comune e la ragionevolezza, che è patrimonio comune di tutta l'umanità.
La creazione del consenso è indubitatamente oggi nelle mani di coloro che controllano i mezzi di comunicazione. Sono i mezzi di comunicazione che, secondo una tecnica studiata a tavolino, riprendono singoli casi eclatanti per colpire emotivamente milioni di persone, sono i mezzi di comunicazione che ci indicano quali siano le priorità di cui dobbiamo discutere, sono i mezzi di comunicazione che, dando risalto od ignorano un determinato fatto, decidono se esso debba o no arrivare all'opinione pubblica.
Chi detiene oggi il controllo dei mezzi di comunicazione, cioè dei grandi giornali e delle grandi reti televisive in grado di orientare le masse?
Una minoranza esigua di capitalisti, di grandi famiglie facenti parte dell'aristocrazia finanziaria, quell'1% della popolazione che premi nobel dell'economia quali Joseph Stiglitz ha denominato “plutocrazia del XXI sec.”.
Che visione hanno questi signori della famiglia? Una visione semplicissima: la famiglia è di per se un'entità sociale pericolosa se assolve pienamente a tutte le sue funzioni naturali, cioè quella formativa, educativa e di sostegno. Pericolosa perchè in questo caso la famiglia può costituire un insormontabile ostacolo al condizionamento umano diffuso voluto tenacemente da questi signori per creare il consumatore perfetto.
La famiglia che va bene alla plutocrazia apolide multinazionale è invece quella fragile ed inconsistente, incapace di creare uomini liberi ancorati a valori profondi perchè troppo occupata nell' affannata ricerca della sopravvivenza economica, perchè privata di luoghi e tempi di condivisione protratta che accrescono la conoscenza reciproca ed rafforzano i legami umani, perchè ormai “liberata” da ogni apparato contenitivo in grado di gestire e far fronte agli inevitabili conflitti e ambiguità della vita umana. Si tratta, in sintesi, di quella "famiglia “liquida” che autori come Bauman hanno indicato essere il prototipo oggi più diffuso, senza però identificarne con esattezza le cause.
L'appoggio della plutocrazia internazionale a questo tipo di famiglia è avvenuta ed avviene nel modo più tradizionale: attraverso il sostegno finanziario consistente di tutte quelle iniziative minoritarie che in qualche modo minano i presupposti della famiglia naturale. L'industria hollywoodiana da questo punto di vista è uno dei molti esempi eclatanti ma se facessimo la lista di tutte le associazioni “no profit” che mettono di dubbio i fondamenti della famiglia finanziate per esempio dalla Fondazione Rockefeller l'elenco sarebbe davvero senza fine. Basti citare che gli studi di Alex Kinsely (1894-1956), che furono alla base della “rivoluzione sessuale” degli anni '60, furono finanziati proprio da questa fondazione.
Di fronte a tale tipo di considerazioni, risulta evidente che la vera battaglia oggi non è tra progressisti e conservatori, tra cattolici e musulmani, tra credenti ed agnostici, ma tra chi ancora riesce a fare riferimento al senso comune ed alla ragionevolezze e chi invece, inconsapevolmente o meno, ha ceduto alle lusinghe della pervasiva campagna mass-mediatica della plutocrazia dominante. Tra chi crede che la famiglia debba continuare ad essere il luogo privilegiato in cui la libertà umana possa concretizzarsi e prendere forma e chi invece la vuole snaturare, privandola di un ruolo formativo sostanziale e lasciando l'individuo alla mercè dei condizionamenti esterni che vengono prevalentemente dai grandi centri finanziari internazionali, o direttamente (mass-media e pubblicità), od indirettamente, attraverso gli Stati od i partiti, asserviti oggi al ruolo di camerieri dei banchieri.

Chi è davvero per la famiglia quindi oggi? Solo chi, riteniamo, abbia sufficiente onestà intellettuale per denunciare e riconoscere le cose come stanno e fare proposte concrete per un cambiamento.
Conoscete forse qualche istituzione, partito o movimento che si muova su questa direzione, non solo a parole – evitiamo la sterile retorica! - ma nei fatti?
Noi sinceramente no! Le famiglie sono lasciate in questo momento a se stesse!

Che fare dunque?
Il distributismo su questo non ha dubbi:
  1. riproporre, al di là di ogni sterile divisione confessionale, ideologica o partitica, la centralità della famiglia quale corpo sociale naturale
  2. proporre una serie di modifiche legislative finalizzate a creare le condizioni perchè la famiglia possa ritrovare il suo giusto posto nella società. A questo proposito il Movimento Distributista Italiano indica tra le altre cose: la corresponsione di una stipendio alle casalinghe, una serie di facilitazioni fiscali per le famiglie numerose, un bonus economico dignitoso per ogni figlio, facilitazioni fiscali per le imprese famigliari.
  3. dare inizio ad iniziative concrete di scambio, supporto e solidarietà, sui vari territori, che coinvolgano ed aggreghino le famiglie (Rete Distributista Territoriale), a partire dalla condizione attuale in cui esse si trovano.
  4. includere il tema “famiglia” all'interno di un discorso necessariamente più ampio, che tenga presente il problema dell'unione capitale-lavoro, del denaro-debito e della restituzione del potere ai vari comparti lavorativi.

Questa è la visione e la proposta concreta che il Movimento Distributista Italiano rivolge a tutte le famiglie: partire dal basso, dalle piccole cose reali che già esistono, adottando una visione ed una comprensione del reale che consenta, insieme, di andare lontano.


mercoledì 23 marzo 2016

Plutocrazia, premi Nobel, Distributismo



« La guerra moderna, fortemente tecnologica, mira ad eliminare il contatto umano: sganciare bombe da un'altezza di 15.000 metri permette di non sentire quello che si fa. La gestione economica moderna è simile: dalla lussuosa suite di un albergo si possono imporre con assoluta imperturbabilità politiche che distruggeranno la vita di molte persone, ma la cosa lascia tutti piuttosto indifferenti, perché nessuno le conosce »

Provate ad indovinare chi ha scritto queste righe. Un romantico sognatore innamorato del tempo che fu? Un perverso complottista vittima una visione paranoica del mondo? Un politico idealista distaccato dal reale? Uno scarso conoscitore della "vera" economia?

No, chi ha scritto queste righe è Robert Stiglitz, premio Nobel per l'economia nel 2001, il quale ripetutamente ed in numerosi suoi scritti usa il termine plutocrazia per definire l'attuale sistema economico-politico-sociale.

Abbiamo bisogno di altro? Non ci basta quanto quotidianamente constatiamo  con i nostri occhi e quanto ci viene ribadito dagli esperti che non hanno paura di confrontarsi con la realtà?

Viviamo in un regime plutocratico, dove la democrazia è svuotata di ogni elemento sostanziale.

È ora di acquisire coscienza di tutto ciò e riprendere la strada dell'equità e della giustizia sociale. Il distributismo affronta questo problema epocale ed indica una strada da seguire, al di là della sterile protesta e della depressiva rassegnazione.

sabato 19 marzo 2016

Il collasso dell'agricoltura siciliana, ovvero della globalizzazione, ovvero della totale assenza di un politica economica sensata.



Gli agricoltori siciliani sono sul piede di guerra. L'accordo Comunità Europea-Marocco consentirà allo Stato africano di importare i suoi prodotti alimentari nei mercati europei senza più dazi.
I prodotti alimentari marocchini costano di meno rispetto a quelli italiani, portoghesi, greci o spagnoli per il fatto che il costo del lavoro - e le relative garanzie – in Marocco sono molto più basse, come molto inferiori sono tutte le procedure – costose – che controllano la qualità e la salubrità del cibo messo in vendita.
In cambio di questo “favore” il Marocco ha accettato di importare “liberamente” merci industriali europee.
Parlamentari italiani ed europei degli schieramenti di governo hanno votato in massa questi provvedimenti.
La vicenda è esemplare, paradigmatica. Si tratta della globalizzazione, fortemente voluta dal potere economico-finanziario mondialista, dai grandi think tank apolidi quali il gruppo Bildelberg, la fondazione Aspen, il Council of Foreign Relations, la Fondazione Rochefeller – solo per citarne alcuni – che impongono ai politici-fantoccio la loro precisa linea di politica-economica: liberalizzare i mercati, abbattere ogni misura di controllo, distruggere ogni argine allo circolazione del denaro e delle merci.
Benissimo! - continuano a ripetere con insistenza monotona i vari mass-media, anch'essi saldamente nelle mani di quel 1-2% della popolazione che sta concentrando nelle sua mani tutte le ricchezze della terra.
Malissimo! - invece, diciamo noi.
Perchè malissimo? Semplicemente perchè questo tipo di politica-economica non ha senso, è destituita di ogni fondamento razionale.
Facciamo un semplice ragionamento: abbattiamo ogni dazio con il Marocco; in questo modo i prodotti alimentari marocchini, meno costosi, invaderanno il mercato europeo, mandando in crisi il settore agricolo europeo, soprattutto quello dei piccoli produttori, delle piccole aziende famigliari, non più in grado di “competere”. In cambio i prodotti industriali europei invaderanno il mercato marocchino, producendo un effetto simile, cioè l'ulteriore crisi del settore industriale marocchino, già in stato di avanzato declino. Avremo quindi un Europa che da una parte produrrà sempre meno cibo per la propria popolazione – e quel poco cibo sarà sempre più nelle mani di rari “grandi” produttori- dall'altra avrà sempre più “grandi” industriali in grado di esportare su scala globale, con progressiva scomparsa dell'artigianato e della piccola industria famigliare, non organizzata per esportare sui mercati esteri. In Marocco invece avremmo da una parte sempre più dei “grandi” produttori alimentari, anche loro in grado di esportare all'estero, che lucreranno enormi somme su una manodopera a basso prezzo, dall'altra un'inesorabile progressiva estinzione del già flebile settore artigianale-industriale locale, sopraffatto dai prodotti europei. La cosa può durare, è stabile e genera prosperità? No, perchè, come già detto, il meccanismo che consente tale fenomeno è il basso costo del lavoro e la debolezza delle industrie locali in Marocco, due fattori di per sé negativi. Negativo il basso costo del lavoro perchè condanna milioni di persone ad una vita precaria ed al limite della sopravvivenza, negativa l'assenza di industria perchè limita strutturalmente l'apertura di altri settori occupazionali e rende dipendente quell'area geo-politica dalle importazioni.
Il meccanismo inoltre è autolimitante: dove troveranno i marocchini i soldi per comprare i beni prodotti dai “grandi” europei? Se si mantiene infatti il basso costo del lavoro, non avranno denaro sufficiente, se si alza il costo del lavoro ed i salari, verrà meno il vantaggio commerciale dei prodotti marocchini e tutto il sistema franerà. E' già successo. Sta succedendo adesso con la Cina: abbiamo “delocalizzato” in Cina perchè il costo del lavoro era più basso, depauperando dal punto di vista occupazionale e quindi del potere d'acquisto il mondo occidentale, ed ora non abbiamo più un mercato in grado di comprare.
Altrettanto negativo lo scenario in Europa: le regioni mediterranee, a vocazione prettamente agricola, verranno ulteriormente impoverite, venendo colpite ancora una volta dal punto di vista occupazionale, a vantaggio delle zone industriali, già più ricche, le quali vedranno aumentare le proprie possibilità sui mercati Marocchini ma lo perderanno sui mercati mediterranei, che perderanno potere d'acquisto.
Cosa produce quindi la globalizzazione? Semplicemente un acuirsi degli squilibri invece che un loro superamento. Squilibri dal punto di vista geopolitico, con la crescita delle ricchezza nei paesi già ricchi e della povertà in quelli già poveri, e dal punto di vista sociale all'interno di ciascun paese, con l'aumento del potere dei “grandi” e la perdita di potere di “piccoli” - piccoli produttori, piccole aziende, artigiani.
La globalizzazione è quindi un fenomeno ben pianificato che mira ad una ineluttabile e progressiva concentrazione del potere e delle ricchezze nelle mani di pochi, come è drammaticamente confermato da tutte le più recenti indagini sociologiche.

Soluzione? Anche questa semplicissima:
  1. imporre dazi ai prodotti alimentari marocchini, almeno fino a quando non ci si assicuri della sussistenza dei diritti minimi dei lavoratori in quel paese e della certificazione della qualità dei processi produttivi e del prodotto finito. Ciò potrà essere da stimolo per un reale sviluppo economico-sociale di quella nazione.
  2. Evitare di invadere il mercato marocchino con prodotti industriali europei, consentendo così al settore artigianale-industriale locale, già molto precario, di sopravvivere e svilupparsi.
  3. Avvio di un piano di aiuti al Marocco finalizzato allo sviluppo delle infrastrutture interne, del settore educativo-scolastico, professionale e tecnologico ed alla piena autonomia e sovranità monetaria nazionale.
In questo modo si darebbe il via ad un circuito virtuoso:
  1. mantenimento dell'occupazione nei paesi del Mediterraneo, con un razionale utilizzo delle risorse naturali e climatiche esistenti, e mantenimento e crescita in queste aree della domanda di beni industriali prodotti in altre zone d'Europa.
  2. Grosso input alla crescita sociale ed economica del Marocco, che vedrebbe incentivata la produzione alimentare secondo criteri sociali e qualitativi più avanzati, senza andare incontro ad collasso del proprio comparto artigianale-industriale. Un migliorato assetto economico-sociale del Marocco a medio e lungo termine ne farebbe un partner commerciale sicuro, affidabile e stabile.

Una tale politica-economica sarebbe orientata a creare equilibri e equità, invece che, come succede con la globalizzazione, a favorire gli squilibri e le asimmetrie. Sarebbe una politica-economica in grado ottimizzare al massimo le risorse esistenti e sviluppare le potenzialità produttive delle aree più depresse, limitando gli ingenti costi economici ed ambientali del trasporto e portando alla fine ad un incremento della prosperità generale: questa è la vera ricchezza a cui bisogna puntare, non quella che consegue alle speculazioni finanziarie delle grandi multinazionali, che concepiscono il mondo come un grande scacchiere in cui lucrare il più possibile secondo criteri miopi orientati al guadagno immediato.
Non quindi globalizzazione, ma politica-economica economica basata sul buon senso e sulla ragionevolezza; non concentrazione del potere e della proprietà nelle mani di pochi, ma distribuzione diffusa delle risorse secondo i meriti e le capacità reali: in una parola: non liberal-capitalismo o social-comunismo ma distributismo.