Ma è davvero possibile oggi pensare un regime socio-economico alternativo al capitalismo? Da una parte infatti vediamo una globalizzazione sempre più discussa e contestata, la storia che si credeva finita che riapre dovunque nuovi scenari, nonché l’ascesa di partiti sempre più ostili nei confronti dei dogmi e delle imposizioni ideologiche del liberalismo economico. Dall’altra però, nella nostra esistenza quotidiana, constatiamo la difficoltà di provare a sfuggire ad un sistema che resta pervasivo ed onnipresente, e a cui soprattutto non sappiamo opporre un’idea di società univoca, realista e credibile. I detrattori del capitalismo infatti sono molti, ma si diramano in correnti e categorie, divergono sia in termini di provenienze, letture e temperamenti che anche in termini di prospettive e speranze. C’è chi per combattere i guasti del liberismo si appella ad una nuova autorevolezza dello stato-nazione, chi vaneggia la sollevazione di moltitudini anarchiche, chi invece propone il ritorno alla campagna, alla terra e ad uno stile di vita essenziale e agricolo. Esiste però una proposta alternativa che è magari meno reclamizzata di altre, non ha sponsor illustri nella grande informazione, ma che ci pare convincente sotto tanti punti di vista, per realismo e praticabilità, efficacia e motivi ispiratori. Parliamo del Distributismo, una dottrina socio-economica che ha quasi più di un secolo, che oggi torna a far parlare di sé. Ma che cos’è, esattamente, il distributismo? Siamo andati a chiederlo al presidente del Movimento Distributista Italiano (MODIT), Matteo Mazzariol, per farci spiegare in primo luogo che cosa sia questa dottrina, e poi per farci illustrare come ed in che modo questo movimento abbia provato e proverà in futuro a condurre una “via italiana” al distributismo.
Luca Gritti: Sul vostro sito si legge “Il movimento distributista italiano nasce a Bergamo il 13 novembre 2012 da un gruppo di cittadini sinceramente interessati a rimettere il senso comune, l’adesione al reale e l’uso della retta ragione al centro dell’agire politico, al di là di ogni ideologia nell’interesse del bene comune. Il movimento distributista italiano affonda le sue radici nel pensiero di Gilbert Keith Chesterton e Hilaire Belloc.” Chi sono Chesterton e Belloc, come giunsero alle loro idee e cosa prevede la loro dottrina economica e sociale? Quando, come e perché avete deciso di fondare in Italia un movimento ispirato alle loro idee?
Matteo Mazzariol: La risposta a queste domande richiederebbe la stesura di un libro. Risponderò in maniera forzatamente sintetica. Gilbert K. Chesterton e Hilaire Belloc erano due personalità illustri del mondo culturale inglese dei primi decenni del XX secolo, cattolici, che, appassionati del bene comune, elaborarono una visione economica-sociale-politica basata sui principi eterni della ragionevolezza e del senso comune, prendendo spunto anche e soprattutto dal magistero della Dottrina Sociale della Chiesa. La loro dottrina economico-sociale propone la riunione di capitale e lavoro, la massima possibile diffusione della proprietà produttiva, una moneta libera da debito al servizio dello scambio di beni e servizi, la restituzione del potere ai cittadini divisi per comparto lavorativo (principio corporativo), la centralità della famiglia naturale basata sul matrimonio di un uomo ed una donna e la necessità di uno suo autosostentamento economico. Poiché tale visione ci è sembrata subito molto concreta e ricca di contributi utili a risolvere i gravi e cronici problemi economico-sociali e politici che affliggono l’Italia da decenni, abbiamo pensato che fosse una cosa buona e giusta fondare il Movimento Distributista Italiano.
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G.K. Chesterton (a destra) con Hilaire Belloc (al centro) e G.B. Shaw (a sinistra).
L.G.: A differenza di quasi tutte le dottrine che mettono in discussione il capitalismo, voi non demonizzate la proprietà, anzi, sostenete che il capitalismo l’abbia di fatto abolita, concentrandola in poche mani, e che per costituire una società più vivibile occorrerebbe difendere la proprietà, fare il modo che sia il più possibile distribuita. Lo stesso Chesterton scrive che “la proprietà è un punto d’onore”. E anche riguardo all’abolizione della proprietà vaneggiata da Marx, Chesterton non aveva mai nascosto forti scetticismi (“Confesso che devo sforzarmi non poco per immaginare lo scenario bizzarro e innaturale in cui un giorno l’umanità dimenticherà completamente il pronome possessivo”). Che cos’è per voi, anche nel vivere quotidiano, la proprietà; perché a vostro giudizio va difesa?
M.M: Per il distributismo la proprietà privata è il modo migliore per gestire i beni, naturali ed artificiali, di questa terra. Senza proprietà privata sarebbe infatti impossibile utilizzare in maniera efficiente ed ordinata tutto ciò di cui disponiamo. Pensiamo solo per un attimo cosa succederebbe se oggetti quali la casa, la macchina, i vestiti non fossero di proprietà privata ma lasciati di proprietà comune. Lo stesso dicasi della proprietà produttiva: che ne sarebbe di un campo agricolo, di un’azienda, se non fosse chiaro fin dall’inizio chi fosse il loro proprietario. Sarebbe impossibile organizzare anche la più piccola forma di produzione. In questo il distributismo prende le distanze nettamente dal social-comunismo. Il distributismo però sostiene non solo l’importanza della proprietà privata ma anche la necessità della sua massima diffusione: se abbiamo un’azienda che produce lavatrici con 100 operai, noi riteniamo che tale azienda potrebbe essere molto più efficiente e funzionale se i 100 operai fossero anche proprietari della ditta, e quindi compartecipi delle decisioni importanti riguardanti il suo sviluppo, la sua organizzazione del lavoro, la ripartizione degli utili. In questo modo il loro fine non sarebbe la mera esecuzione di un compito parziale e selettivo ma la salvaguardia del benessere dell’azienda stessa, a cui devolverebbero tutte le loro energie. La resa del singolo operario aumenterebbe vertiginosamente, facendo così aumentare considerevolmente la resa totale dell’azienda. La massima diffusione della proprietà privata è quindi la condizione essenziale perché il più alto numero possibile di persone in una data regione possano sviluppare al massimo le proprie potenzialità. Poiché lo sviluppo di tali potenzialità costituisce alla fine il fattore determinante in grado di incidere sulla ricchezza reale di un territorio, si può sostenere senza tema di smentita che la massima diffusione della proprietà produttiva sia il principale requisito strutturale che sta alla base di ogni sistema economico realmente produttivo, stabile e quindi prospero. In questo il distributismo prende quindi le distanze in maniera netta dal capitalismo.
Per il distributismo il capitalismo è infatti quel sistema economico-sociale che privilegia la separazione tra capitale e lavoro, privilegia cioè che chi lavora non sia proprietario dei mezzi di produzione, e che la proprietà, produttiva e non, venga quindi concentrata nelle mani di pochi. Il distributismo invita anche a riflettere sulla coincidenza pressoché totale tra proprietà, potere e libertà ed ad osservare che in questo senso capitalismo e social-comunismo non siano altro che due facce della stessa medaglia: due sistemi, cioè, che si oppongono entrambi alla massima possibile diffusione della proprietà privata e del potere reale, e quindi della libertà, due sistemi che puntano inesorabilmente a ciò che Hillare Belloc già nel 1912 definì Stato Servile. Lo Stato Servile, secondo il distributismo, è proprio lo scenario che descrive meglio la condizione attuale della società, con il paradosso che viene fatto passare, dai mass media e dalla cultura asserviti ai poteri forti, come il sistema di massima libertà mai raggiunto dall’umanità.
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“Se non restaureremo l’istituzione della proprietà, non potremo scampare alla restaurazione della schiavitù”, scriveva Belloc ne Lo Stato Servile nel 1912.
L.G: Un altro dei grandi temi di Chesterton è la superiorità della realtà sull’utopia. In che senso è meglio essere realisti che utopisti? Perché il Movimento Distributista rappresenta un’alternativa al capitalismo più “realista” rispetto alla decrescita felice, o a forme redivive di marxismo?
M.M: L’adesione al reale, al senso comune ed alla ragionevolezza sono i punti di fondo filosofici del distributismo. Per il distributismo la realtà esiste, c’è là fuori, ed il compito dell’uomo è quello di cercare di adeguare la propria mente a tale realtà. Sembrerebbero cose scontate ma non lo sono. Molte correnti filosofiche attuali sostengono infatti che non esiste alcune realtà e che l’uomo sia il creatore di tutto ciò che esiste. Questa posizione consente al distributismo, da un punto di vista storico, economico, sociale e politico, di porsi al di là ed oltre ogni ideologia, se per ideologia si intende un programma di società dettato principalmente dalla volontà dell’uomo, sciolta da un legame fondante con il reale.
Ciò che i distributisti sostengono è che social-comunismo e capitalismo, con tutti i loro derivati più o meno edulcorati, sono falliti sotto tutti i punti di vista, perché hanno dimostrato sia un’inconsistenza concettuale interna – dimenticando nelle loro asserzioni il riferimento alla reale natura umana – sia un’incapacità di plasmare positivamente il reale, producendo una serie infinita di inefficienze, diseguaglianze, ingiustizie, precarietà e crisi economico-sociali, che stanno conducendo l’umanità sull’orlo di un baratro. La proposta distributista, invece, non si basa su un’astrazione concettuale, né è un parto della fantasia o dell’idealismo umano, ma è semplicemente la trasposizione sul piano economico-politico-sociale del senso comune, cioè della capacità innata nell’uomo di riconoscere con la retta ragione il reale nelle sue svariate componenti.
L.G.: Nel suo romanzo Sottomissione, Michel Houellebecq immagina lo scenario distopico di una Francia islamizzata e, con un notevole gusto del paradosso, sostiene che questa società è amministrata secondo i precetti del distributismo, che è una dottrina economica che si fonda anche, a livello sociale, su una grande stabilità famigliare. Al di là della provocazione dello scrittore francese, il distributismo è impensabile senza un ritorno ad un nucleo famigliare più stabile, più duraturo, indissolubile? C’è un connubio tra distributismo e famiglia intesa in senso “tradizionale”?
M.M.: La risposta a questa domanda è la diretta conseguenza di quanto esposto nella risposta precedente. Il distributismo non pone il suo accento sulla famiglia “tradizionale”, se per tradizionale si intende ciò che viene “tradotto” semplicemente da una generazione all’altra, senza nessuna riflessione sulla sua congruità e ragionevolezza. Il distributismo vuole invece porre l’accento su quelli che sono i reali bisogni del cuore dell’uomo e sulle modalità per una loro possibile realizzazione. Non a caso ho usato l’espressione “cuore”, un termine che sintetizza l’inscindibile unione di mente e corpo, spirito e materia, che caratterizza la persona umana. In questo senso, alla luce del senso comune che è in dotazione a tutto il genere umano, il distributismo sostiene che l’unione duratura di un uomo ed una donna aperti alla procreazione costituisca il nucleo sociale fondante, dalla cui solidità e coesione dipende la solidità e coesione di tutto il corpo sociale. La famiglia quindi è quello spazio naturale in cui si forma il futuro uomo, attraverso un nutrimento materiale, psicologico e spirituale che lo porteranno ad essere lui il vero “capitale umano” che, sviluppati i propri talenti, sarà poi in grado di contribuire al benessere delle comunità. Se si vuole realizzare il bene comune, per i distributismo non si può prescindere dall’adeguare i vari strumenti legislativi alle esigenze di quell’entità sociale naturale che chiamiamo famiglia e che preesiste a qualsiasi ordinamento statuale.
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G.K. Chesterton con la moglie Frances. Scrive Chesterton in The Well and the Shallows (1935): “Non si ripeterà mai abbastanza che ciò che distrusse la famiglia nel mondo moderno, fu il capitalismo. Nessun dubbio che potrebbe essere stato il comunismo, se il comunismo ebbe mai la possibilità di uscire da quei confini primitivi e quasi mongoli in cui è fiorito. Ma per quanto ci riguarda, ciò che ha spaccato i focolari, e incoraggiato i divorzi, e ha guardato con sempre più disprezzo alle virtù domestiche, è l’epoca e la potenza del capitalismo. E’ il capitalismo che ha portato le tensioni morali e la competizione affaristica tra i sessi, che ha sostituito all’influenza del genitore l’influenza del Datore di lavoro; che ha fatto si che gli uomini abbandonassero le loro case per cercare lavoro; che li ha costretti a vivere vicino alle loro fabbriche o alle loro ditte invece che vicino alle loro famiglie; e soprattutto che ha incoraggiato per ragioni commerciali, una valanga di pubblicità e di mode appariscenti che per loro natura uccidono tutto ciò che erano la dignità e il pudore dei nostri padri e delle nostre madri”.
L.G: Dopo la crisi economica del 2008, molti autori critici del nostro sistema economico che erano stati dimenticati ed avevano subito una sorta di damnatio memoriae sono stati riabilitati, ripresi, ridiscussi. Tra questi, ci sono anche i padri del distributismo? Esistono altri Movimenti Distributisti, oltre al vostro, in Europa e nel mondo?
M.M: In Europa il gruppo distributista più forte ed organizzato è forse quello che fa capo all’inglese Phillip Blond, il fondatore della fondazione ResPublica. Tale fondazione ha deciso di concentrare i propri sforzi nell’elaborare progetti specifici distributisti, con tanto di business plan, nei vari settori economico-sociali (per esempio educazione, artigianato, industria, agricoltura, finanza), con l’obiettivo di superare l’impasse causato dall’attuale vuoto di modelli e di proposte concrete di sviluppo. Molti di questi progetti sono stati ripresi da ministri dei vari schieramenti politici inglesi e sono in via di attuazione. Un esempio per tutti: la trasformazione di impiegati pubblici in associazioni di proprietari a cui vengono affidati determinati servizi sociali. In Spagna c’è la Cooperativa Mondragon, fondata su principi distributisti, che con i suoi circa 80.000 iscritti ed i suoi continui successi economico-sociali, rappresenta l’esempio vivente di come il distributismo possa realizzare nella pratica efficienza ed equità sociale. Esistono poi altri movimenti di entità minore in Romania, Polonia, Spagna e gruppi che si rifanno alle idee distributiste in quasi tutti i paesi europei. Negli Stati Uniti è attiva la Distributist Review, una rivista online che funge da collante tra tutti i distributisti nord-americani e di lingua inglese, molti dei quali ricoprono ruoli significativi nel mondo accademico. Recentemente il distributismo si sta diffondendo anche nei paesi dell’America del Sud.
L.G.: Le piccole e medie imprese, i piccoli artigiani i commercianti, le aziende a gestione famigliare sono sempre state, storicamente, il fondamento più solido dell’economia italiana. In questo senso, il nostro paese può esercitare una resistenza maggiore rispetto a certe derive “disumanizzanti” del capitalismo globale? L’Italia ha, senza saperlo, una vocazione “distributista”?
M.M: Senza dubbio, l’Italia ha una vocazione distributista, almeno per quanto riguarda la famiglia e la massima possibile diffusione della proprietà produttiva nella forma delle piccole aziende. Le banche popolari e cooperative sono inoltre un tentativo di operare una finanza al servizio del territorio, mentre dal punto di vista politico la partitocrazia ha purtroppo occupato tutti gli spazi ormai da più di 70 anni, lasciando poco spazio alla distribuzione del potere politico alle associazioni di lavoratori-proprietari per comparto occupazionale (gilde o corporazioni). Le aziende famigliari e le piccole e medie imprese, gli artigiani, i piccoli commercianti, i liberi professionisti, cioè forse la fascia produttiva più importante della nostra nazione, rappresentano una realtà in cui chi lavora è nella maggior parte dei casi anche proprietario dei mezzi di produzione. Il problema di fondo però è che, in assenza di una consapevole politica economica distributista da parte del governo, tutte queste forze sane della nostra nazione, invece che essere supportate e consolidate, vengono svantaggiate e vilipese, svuotate sempre più di poteri e ridotte in miseria da misure legislative e fiscali che avvantaggiano sempre e comunque la concentrazione di capitali nelle mani di pochi".