sabato 10 marzo 2018

PILLOLE DISTRIBUTISTE: IL LAVORO


In Italia è stato dato per disperso un elemento che, soprattutto dal medioevo in poi, ha contributo a rendere grande la nostra civiltà: il lavoro. Nessuno infatti lo trova più, tutti lo invocano disperatamente e lo richiedono con insistenza. Quando ne sono privi molte persone, disperate, sono persino disposte a spostarsi all'estero per ottenerlo. Nessun in realtà lo cerca per se stesso, ma per quello che esso può dare: il denaro necessario per sopravvivere.
Prendiamo atto quindi che non si può parlare di lavoro senza parlare di denaro. Il lavoro è anche sforzo e fatica ed è quindi giusto che venga remunerato ma siamo proprio sicuri che, se magicamente potessimo far crescere il denaro sugli alberi, la gente non andrebbe più a lavorare? Ne dubito fortemente. Oltre alla sopravvivenza infatti, l'essere umano è fatto per dare senso alla propria vita e non c'è niente come un'esistenza attiva e produttiva, fatta di scambi costruttivi con i propri simili, che possa dare pienezza: la soddisfazione di un lavoro ben fatto, con le proprie mani o la propria intelligenza, è una gratificazione che ha un valore non commensurabile. Non solo: il lavoro consente anche di entrare in contatto con il reale, con tutti i suoi limiti, rischi, delusioni e soddisfazioni e di trasformarlo in senso positivo; consente di misurare le proprie capacità. Senza lavoro l'uomo rischierebbe di perdere la propria identità e di non riuscire a sviluppare tutte le sue potenzialità.
E' innegabile che negli ultimi secoli questa dimensione “umana” del lavoro sia andata progressivamente scomparendo ed esso sia tornato ad essere percepito come durante l'antichità: nell'antichità il lavoro era considerato come un'attività indegna da relegare prevalentemente agli schiavi ed ai servi. L'uomo vero, se può, non lavora ma si dedica all'”otium”, cioè a svolgere solo attività piacevoli senza nessun particolare fine “produttivo”.
Questa concezione venne scalzata solo a partire dall'alto medioevo, con l'avvento definito del cristianesimo e l'opera dei monaci benedettini, i quali, con il famoso “ora et labora” riscattarono il lavoro come compartecipazione all'attività creatrice di Dio ed il corpo umano, che nel lavoro è protagonista, come tempio dello Spirito Santo.
Le progressiva perdita della dimensione spirituale del lavoro – iniziato con la progressiva perdità di incidenza del cattolicesimo sulla vita economico-sociale avvenuta a partire dal rinascimento – ha quindi aperto la strada alla sua successiva disumanizzazione. Il lavoro non è stato più infatti concepito come importante momento di condivisione con la potenza creatrice di Dio ma mera merce da utilizzare, nel “mercato” del lavoro, come un bene di scambio, soggetto agli alti e bassi che la “mano invisibile” produce nel mercato stesso. E' stato così possibile, nell'Inghilterra della fine del XVII sec., con la concentrazione del potere nelle mani di pochi possidenti seguita alla requisizione dei beni della Chiesa Cattolica e l'inizio dell'utilizzo capitalistico dei grandi possedimenti terrieri, prima lasciati all'utilizzo pubblico, mandare progressivamente in miseria milioni di persone, sottraendogli la piccola proprietà, strappandoli all'agricoltura, all'artigianato, alle piccole e grandi professioni e trasferendoli in massa, appunto come forza lavoro, nelle città, a compiere lavori del tutto disumani ma altamente lucrativi per chi possedeva la proprietà dei mezzi di produzione. Il passaggio centrale, che ha sancito la cosificazione del lavoro e la perdita della sua dignità, è stata quindi la separazione tra capitale e lavoro, che era presente nella società medioevale ma in misura decisamente ridotta.
Il social-comunismo, sopravvenuto apparentemente come reazione a questo stato di cose, in realtà ha perseguito sulla stessa strada: il lavoro rimane una merce, il capitale rimane separato dal lavoro, semplicemente esso viene attribuito allo Stato ed al Partito, invece che a pochi capitalisti. Tutte le evidenze storiche inoltre indicano che i principali finanziatori del social-comunismo e della sua filosofia materialistica furono quelli stessi esponenti della grande finanza apolide, che la vulgata storica accreditata dai mass-media vorrebbe invece far passare come suoi acerrimi nemici. Ciò spiega come sia possibile che i sindacati abbiano totalmente fallito nella loro missione di aiutare i lavoratori: essi condividevano e condividono la stessa visione del lavoro dei capitalisti che dicono di combattere!
Eccoci quindi nella situazione attuale in cui chi detiene il potere economico-finanziario – quell'1% della popolazione che possiede il 90% delle ricchezze – continua a trattare il lavoro – e quindi l'uomo – come una merce. Tale merce continua inesorabilmente a perdere valore perchè, per il capitale, esso fondamentalmente rappresenta solo un costo, ed i costi devono essere al più possibile ridotti al minimo, nell'interesse supremo del profitto. Il capitale inoltre ha tutto il vantaggio ad eliminare il lavoro umano ed utilizzare al suo posto le macchine, perchè i loro costi sono incomparabilmente minori. E' chiaro inoltre che il capitale – orientato al profitto che viene dalla produzione di massa – è poco interessato alla creazione di beni di alta qualità, il cui costo di produzione è molto più alto. E' evidente a tutti come il capitalismo sia fondamentalmente una teoria ed una prassi assurda in quanto, come diceva Chesterton, il fondatore del distributismo, esso si basa sul presupposto che i capitalisti vogliono nello tempo diminuire al massimo lo stipendio dei loro dipendenti ed aumentare al massimo il potere di acquisto dei consumatori, che però coincidono con i loro dipendenti: una incongruenza insanabile.
Che fare quindi? Cosa rispondere alla massa di cittadini impoveriti che sono alla disperata ricerca di un'occupazione?
Il primo passo è aiutarli a prendere coscienza che rischiano molto seriamente di ricadere in quella condizione di servitù e schiavitù che esisteva nel mondo antico prima dell'avvento del cristianesimo. Il secondo passo è fargli capire che l'unico modo di creare lavoro vero – lavoro cioè che sia in grado di recuperare le sue principali connotazioni umane e positive di strumento di crescita per l'individuo e la società – è quello di puntare all'unione di capitale e lavoro, cioè alla fine della cosificazione del lavoro stesso. Chi infatti lavora ed è anche proprietario dei mezzi di produzione, non concepisce il lavoro, cioè la propria attività, come una mera merce ma percepisce sulla propria pelle che il lavoro è ben altro, che è un mezzo che lui ha a disposizione per migliorare la sua vita, quella della sua famiglia, che va regolato e limitato secondo i ritmi della vita umana ed è una realtà a cui va conferito un senso. Il terzo passo è fargli capire che puntare all'unione tra capitale e lavoro, cioè alla massima diffusione della proprietà produttiva, è l'unico modo per garantire la loro vera libertà, perchè non esiste alcuna libertà senza possesso dei mezzi di produzione e quindi anche dei prodotti del proprio lavoro. Il quarto passo, forse quello più importante, è fargli capire che il denaro – mera convenzione umana – può incominciare fin da ora ad essere messo al servizio del lavoro, facendo si che, messo da parte l'attuale denaro-debito bancario, la moneta venga emessa come proprietà dei cittadini e consenta da subito la produzione di beni e servizi – e quindi di lavoro – in funzione delle necessità reali delle varie comunità. In questo modo il problema della disoccupazione può essere risolto nel giro di sei mesi ed il limite alla creazione di lavoro non sarà più rappresentato dalla mancata disponibilità di pezzi di carta prodotti dal nulla dalle banche – le banconote – ma dalla presenza di risorse umane, professionali e materiali all'interno di una comunità: limiti naturali dunque e non artificiali e convenzionali, come il denaro.
Queste sono solo alcune pillole circa il significato del lavoro secondo la visione distributista.

lunedì 5 marzo 2018

COMMENTO POST-ELETTORALE: DISTRIBUTISMO E POTERI FORTI

Commento post-elettorale: distributismo e poteri forti

Noi italiani siamo un popolo che ama parlare ed adesso, un po' come dopo una partita di calcio, ognuno si sta sbizzarrendo a fare analisi politiche del post voto ed a prospettare possibili sviluppi di uno scenario alquanto incerto.
Desidero pertanto prodigarmi anch'io in questo sport nazioale, esponendo il punto di vista distributista.

Osservando quanto accaduto con animo il più possibile oggettivo e distaccato, è possibile notare che il messaggio prevalente giunto con queste elezioni è piuttosto semplice:
no alle ideologie (di destra, di sinistra o di centro), si al tentativo di risolvere i problemi concreti.
Questo infatti ha rappresentato in sostanza la vittoria di Lega e 5Stelle.
Berlusconi ha avuto già troppe chances per essere ancora presentabile, come pure Renzi ed il centro-sinistra, mentre tutti coloro che hanno cercato di rispolverare ideologie già sepolte dalla storia (Liberi ed Uguali, Casa Pound) sono stati abbandonati a se stessi.

Ciò che è accaduto risponde pertanto perfettamente al piano che i poteri forti – cioè il sistema bancario-finanziario oggi imperante sull'economia reale – hanno pianificato per le grandi nazioni sviluppate  e per l'Italia ormai da secoli: cambiare tutto per non cambiare niente.
Il meccanismo funziona così: si concede a chiunque proponga un programma di presunto rinnovamento di presentarsi all'opinione pubblica. Se quanto proposto non mette in crisi i presupposti di fondo del potere economico-finanziario (sistema del denaro-debito, sistema dei partiti, separazione tra capitale e lavoro) viene concesso di acquisire l'effimero potere politico (vincere le elezioni, formare il governo), dando così l'impressione all'opinione pubblica dell'esistenza di una reale alternanza. Poichè chiunque giunga a detenere il potere politico nazionale in tal modo si ritroverà nell'impossibilità matematica di risolvere davvero le cose - come possibile realizzare un minimo di equità, giustizia sociale e prosperità economica lasciando in essere denaro-debito, sistema dei partiti e separazione tra capitale e lavoro? - queste stesse formazioni saranno ineluttabilmente destinate a fallire (vedi i governi della I , II e III Repubblica). I poteri forti si troveranno allora nella necessità disperata di trovare altre false alternative, che vengano incontro all'esigenza di rinnovamento dell'opinione pubblica. A tali poteri forti in fondo non importa poi tanto chi di volta in volta vinca, l'importante è che nessuno schieramento osi mettere in dubbio la gabbia entro cui tale falsa alternanza prende corpo. Qualora ciò accadesse tutti i mezzi, dalla corruzione, il ricatto, alla guerra, verrebbero immediatamente messi in atto per mettere fine a tale sconveniente incidente di percorso. Il gioco è ormai collaudato da secoli negli Stati Uniti e subisce solo modeste variazioni a secondo dei vari contesti geografici-culturali-nazionali in cui viene attuato.
Tale analisi è basata sulla radicata consapevolezza, frutto dell'acquisizione di una miriade di dati ed evidenze, che il potere reale oggi non risieda nella mani nelle mani dei nostri politici ma di coloro – una sparuta minoranza rappresentata dall'1% della popolazione  - che detengono il possesso della maggior parte delle risorse economico-finanziarie del pianeta – i poteri forti appunto.

Che fare dunque? E' possibile uscire da questa gabbia? Si, certo, uscire è possibile.
Il primo punto è quello di essere consapevoli della sua esistenza – non c'è peggior schiavo di chi non si rende conto di esserlo.
Il secondo è avere una direttiva di marcia chiara e semplice ma allo stesso tempo incisiva e potente da seguire per costruire un'alternativa realistica e praticabile. Questa alternativa si chiama distributismo.
Il distributismo infatti rappresenta una sorta di ribaltamento dei presupposti perversi su cui si basa la società gestita dai poteri forti (eliminazione della famiglia, denaro-debito, partitocrazia, separazione tra capitale e lavoro, immigrazione selvaggia). In realtà si tratta di un ribaltamento di un ribaltamento, cioè, in sintesi, di un ritorno al reale, intorno a 4 punti cardine:
centralità della famiglia tradizionale
unione tra capitale e lavoro e massima diffusione della proprietà produttiva
ritorno del principio corporativo (gilde ed aggregazioni per comparto lavorativo) e fine della partitocrazia
eliminazione del denaro-debito bancario ed emissione di una moneta al servizio del bene comune di proprietà dei cittadini.

Bisogna anche prendere atto che questi basilari punti chiave sarebbero in grado di raccogliere, senza ombra di dubbio, il consenso della stragrande maggioranza degli elettori, di quei milioni di cittadini italiani giustamente nauseati dall'inconcludenza della politica negli ultimi 70 anni e dal fallimento pratico di capitalismo e social-comunismo e dei loro tanti derivati. Si tratterebbe di un'epica battaglia di liberazione da una sorta di lavaggio del cervello collettivo che ha puntato a trasformare le minoranze in maggioranze, conculcando il buon senso e la ragionevolezza.

Sta  a noi quindi farci portatori, al di la di ogni sterile personalismo, di tali idee vincenti, vincenti non perchè siano più sofisticate od appoggiate dalla forza del denaro, ma perchè in grado di intercettare il reale.

Per informazione ed adesioni

sabato 3 marzo 2018

IL DENARO-DEBITO: LA TRUFFA LEGALIZZATA CHE PRODUCE LA MAGGIOR PARTE DEI PROBLEMI ECONOMICI-SOCIALI




Siamo alla vigilia delle elezioni politiche ed i vari partiti si stanno sforzando di intercettare il consenso della gente proponendo soluzioni ai gravi problemi che ci attanagliano. Allo stesso tempo la gente sembra aver perso fiducia nelle promesse dei partiti e si profila sempre più la vittoria dell'astensione e del non voto.
Che cosa sta succedendo? Nulla di particolarmente strano, semplicemente la realtà si sta imponendo sulla sterile retorica e sulla cronica incapacità dei nostri politici di cogliere il reale.
Di Maio ha annunciato che i provvedimenti urgenti del suo ipotetico governo saranno quelli di tagliare a metà gli stipendi dei parlamentari e togliere i vitalizi ai politici, facendo intendere che la vera causa della crisi sono gli sprechi e la corruttela dei politici stessi; Salvini propone la flat tax al 15%, facendo intendere che la vera causa della crisi sia la tassazione eccessiva che affossa l'economia; Renzi propone uno statalismo alleato al capitalismo; il centro-sinistra propone più statalismo, facendo intendere che la vera causa della crisi sia il liberalismo selvaggio.
In tutte queste posizioni c'è una parte di verità ma una parte molto limitata e parziale e nessuna è in grado di individuare la realtà così com'è: per questo sono tutte destinate a fallire.
Tali proposte colgono solo aspetti collaterali e quantitativamente insignificanti (spreco e corruttela dei politici indicati dai 5 Stelle), altre colgono solo le conseguenze senza indicare le vere cause della crisi (tassazione eccessiva indicata della Lega), altre individuano una possibile causa (liberismo esasperato), suggerendo come soluzione un male peggiore e già sepolto dalla storia (statalismo).
Che fare dunque?
Semplicissimo! Rimanere adesi al reale! Cosa ci dice la realtà?
Ci dice che oggi esiste un tipo di denaro che viene prodotto dal nulla esclusivamente come debito di Stati e cittadini verso il sistema bancario. Tutti possono avere la conferma di questo dato inoppugnabile, semplicemente prendendo in mano una qualsiasi banconota di euro e leggendo la firma del suo proprietario: troverete Mario Draghi, governatore della Banca Centrale Europea e non Repubblica della Stato Italiano.
Benissimo. Vediamo quali sono le conseguenze, inevitabili ed ineluttabili, di questo fatto.
Se tutta la moneta è prodotta come debito di Stati e cittadini verso il sistema bancario, con tanto di interesse, si deduce che Stati e cittadini saranno obbligati ad indebitarsi verso il sistema bancario.
Ciò vuol dire che quando lo Stato ha bisogni di soldi per opere pubbliche o singoli cittadini vogliono intraprendere iniziative economiche, potranno farlo in un solo modo: appunto indebitandosi verso il sistema bancario! Dal punto di vista dello Stato ciò vuol dire due cose: incrementare il debito pubblico od incrementare le tasse, tertium non datur. Dal punto di vista del cittadini vuol dire invece aumentare i debiti privati ed essere soggetti a sempre più privazione di servizi pubblici od ad una tassazione sempre più esosa. Si instaura così una spirale perversa da cui è impossibile uscire. Questo scenario vi ricorda qualcosa?
Tutto questo ragionamento, ma meglio sarebbe dire questa lucida ed obiettiva analisi dei fatti, richiede un chiarimento di fondo. Bisogna innanzitutto capire che cosa sia la moneta, quale siano le sue funzioni e soprattutto chi ne deve essere il proprietario al momento dell'emissione.
La moneta è essenzialmente una convenzione umana – esisterebbe forse la funzione monetaria in assenza di persone?– finalizzata alla misurazione del valore delle cose ed alla facilitazione degli scambi. La moneta è quindi uno strumento di misura e di scambio ma allo tempo è anche un valore, in quanto possedendo la moneta ottengo il potere di effettuare acquisti.
Si pone allora il problema centrale: chi può produrre denaro e, soprattutto, chi deve esserne il proprietario al momento dell'emissione?
Essendo il denaro una convenzione che, per funzionare, deve essere universalmente accettata, in qualunque contesto geografico e temporale l'umanità ha sempre avvertito l'importanza di associare la gestione della moneta all'autorità competente per l'amministrazione del bene comune. Storicamente inoltre le varie comunità, a secondo del loro livello di organizzazione interna, hanno deciso convenzionalmente di attribuire valore monetario a diverse entità, materiali, simboliche o numeriche. La differenza fondamentale sta nel fatto se tali entità debbano o no avere un valore intrinseco. Per esempio, per molti secoli la civiltà occidentale decise di conferire valore monetario all'oro, per cui solo l'autorità pubblica che possedeva oro era in grado di produrre moneta e possederla all'atto dell'emissione. Ciò poteva andare bene in una economia basata essenzialmente sull'agricoltura, in cui gli scambi monetari erano ridotti e la maggior parte della gente poteva anche adattarsi a scambi in natura ma divenne un problema nel momento in cui il rapporto tra quantità di oro esistente e quantità di moneta richiesta divenne insostenibile. Con l'affermarsi del prestito ad interesse e della riserva frazionaria, a partire dal XIV secolo, i banchieri trovarono il modo di ovviare a questo problema, utilizzando l'oro come riserva ma non in un rapporto 1 a 1, bensì in un rapporto molto più basso, 1 a 10, 100, 1000. Il passaggio è molto semplice e basato sostanzialmente su una truffa: quando la gente depositava oro nelle banche, riceveva in cambio una “nota di banco” in cui veniva “annotato” l'importo di oro depositato. Poichè tali “note di banco” o banconote erano pià facili da trasportare e scambiare, la gente incominciò ad utilizzare tali “note” come monete, lasciando l'oro nelle banche. I banchieri, scaltri e furbi, si accorsero che solo una minima percentuale di persone veniva a richiedere l'oro depositato e così penso bene di emettere altre “note di banco”, coperte dall'oro che in realtà le banche non possedevano, quindi sostanzialmente non coperte, questa volta come prestito verso terzi. Il rapporto tra “banconote” ed oro incominciò così a crescere ed i banchieri ad arricchirsi senza fare niente. Da notare che tale pratica perversa non si sviluppò finchè la cristianità rimase fedele al mandato di non praticare usura, cioè prestito ad interesse, e che all'inizio prese piede soprattutto in ambienti culturali-religiosi ebraici perchè il giudaismo era l'unica religione che permetteva la pratica del prestito ad interesse, anche se limitata a non correligionari. Nel 1694, con la fondazione della Banca d'Inghilterra, la gestione della moneta, per una serie di passaggi storico-economici che sarebbe troppo lungo descrivere qui, passò poi definitivamente in mano ai privati, e le banconote emesse da tali banchieri privati divennero moneta a corso legale.
Nel 1971 infine il presidente americano Nixon dichiarò definitivamente decaduta ogni corrispondenza tra l'oro e il denaro e da allora ogni moneta è diventata “fiat money”, cioè una realtà creata dal nulla.
Oggi quindi il denaro è privo di qualsiasi valore intrinseco, eccettuato quello irrisorio legato alla produzione di carta, assegni od input elettronici.
Diventa quindi essenziale stabilire a chi spetti la proprietà della massa monetaria al momento della sua creazione e qui non possiamo altro che rifarci alla ragionevolezza, al senso comune ed ai minimi principi di equità e giustizia sociale.
Il ragionamento è semplice: poiché la moneta è una convenzione ed il suo valore le viene conferito dalla gente nel momento in cui la accetta, l'unico proprietario legittimo della moneta stessa quando questa viene prodotta può e deve essere uno ed uno solo: il popolo. Nessun altro settoriale corpo sociale o entità statale è titolata a possedere la moneta al momento della sua emissione. Il nuovo denaro, quando si riscontrasse la necessità della sua emissione in relazione alla quantità di beni presenti sul territorio, andrebbe quindi accreditato a ciascun cittadino su un conto personale. Unica eccezione sarebbe quella dell'accreditamento diretto a manodopera o lavoratori per lo svolgimento di un numero essenziale e rigidamente controllato di opere o servizi pubblici. Per mantenere l'euflazione – cioè il giusto rapporto tra beni e denaro e quindi la stanbilità del potere di acquisto della moneta, senza inflazione o deflazione – sarebbe sufficiente condizionare l'emissione di nuova moneta alla quantità di beni presenti, incentivando la circolazione monetaria stessa e sfavorendo il suo accumulo improduttivo. Il prestito ad interessi, pretestuoso tentativo di rendere fecondo ciò che per natura non lo è – il denaro -, andrebbe abolito. Chi volesse prestare denaro potrebbe richiedere in cambio, oltre alla somma originaria, soltanto un minimo rimborso spese per i costi della pratica e/o un minima percentuale sui profitti eventualmente ottenuti dall'investimento. Ciò è quello che accade oggi con la finanza islamica, che considera usura il prestito ad interesse, come d'altronde avveniva anche nel cattolicesimo fino ad un molto discutibile aggiornamento, avvenuto quasi impercettibilmente a partire dal XIV secolo.
Quanto questo principio sia aderente ai basilari valori di giustizia sociale, emerge in maniera eclatante se facciamo riferimento al gioco del monopoli. In questo gioco al tempo zero, all'inizio della varie attività di scambio, la moneta viene equamente divisa tra tutti i partecipanti perchè si conviene implicitamente che essa rappresenti appunto quello che è, cioè uno strumento convenzionale finalizzato allo scambio, alla misura del valore delle cose ma anche al tempo stesso dotato di un suo valore, il potere di acquisto. Se all'inizio del gioco un partecipante dicesse: “bene signori, possiamo incominciare; però ho deciso che il denaro lo tengo tutto io e quando voi ne avrete bisogno me lo chiederete ed io valuterò di volta in volta, a mio insondabile giudizio, quanto crearne dal nulla ed a chi imprestarlo. Sia chiaro che poi voi me lo dovrete restituire con tanto di interesse e se non lo farete io verrò a requisirvi i beni che nel frattempo voi avrete prodotto o scambiato”. La reazione di qualsiasi persona dotata di un minimo di buon senso non potrebbe altro che essere quella di considerare tale offerta come una battuta di spirito o la manifestazione di un manifesto disagio mentale.
Eppure questo è esattamente, ed incredibilmente, quello che accade oggi.
Il denaro che noi utilizziamo – sia banconote sia denaro virtuale elettronico – nasce dal nulla solo ed esclusivamente come proprietà del sistema bancario privato che ce lo impresta con tanto di interesse.
Capite bene le conseguenze di questa situazione. Paradossalmente ogni ripresa economica, basata sull'espansione monetaria, non è altro che un'espansione di debito, il quale prima o poi dovrà essere restituito con gli interessi alle banche. Se tutto il debito venisse restituito non ci sarebbe più denaro, rendendo la cosa impossibile! Ecco quindi la perenne instabilità economica ed il ripetersi ineluttabile di crisi e false riprese. Lo stesso accade per lo Stato: se si deve costruire un ponte od un ospedale, i soldi necessari costituiscono un debito verso le banche, anche qui con tanto di interessi, che lo Stato potrà restituire solo attraverso le tasse o la riduzione di altri servizi. E' una gabbia da cui non si può uscire. Stato e cittadini sono quindi condannati ad una disastrosa quanto artificiale sottomissione al debito bancario, che costituisce la vera e principale cause di tutti i nostri gravi problemi economico-sociali, i quali sono a loro volta tutti collegati tra di loro: disoccupazione, precarietà lavorativa, emigrazione forzata, pensioni basse, calo della natività, chiusura delle piccole aziende, assenza di validi servizi pubblici, perdita del potere di acquisto.
Risulta patetico, rivoltante, grottesco e quasi insultante l'atteggiamento di coloro che, soprattutto se responsabili del bene comune, di fronte a questa eclatante perversione monetaria, insistono nel sostenere che le cause della crisi siano prevalentemente altre. Il loro fallimento, il fallimento di tutti politici nel corso degli ultimi 70 anno, non dipende solo e principalmente dal fatto che non abbiano buona volontà ma dal fatto non colgano nel segno quale sia il vero problema, ingannando se stessi e la gente. Eppure non ci vorrebbe tanto, basterebbe applicare la propria ragione al reale, mantenersi fedeli al principio di identità e non contraddizione, che Aristotele aveva indicato un paio di millenni fa come il fondamento di ogni civiltà che voglia definirsi veramente tale.

Ritornando al discorso iniziale delle elezioni, chi votare dunque?

Penso che, alla luce di quanto sopra esposto, ogni cittadino abbia gli strumenti per decidere nel migliore dei modi.

Siamo inoltre consapevoli che la questione monetaria vada inserita all'interno di una cornice più ampia, che tenga presente anche di altri punti ugualmente essenziali, i quali però rischiano di non poter essere mai essere attuati finchè il sistema bancario continuerà a mantenere la proprietà della moneta e con esso il potere reale di condizionare ogni aspetto della realtà. Si tratta della tutela della famiglia tradizionale, dell'unione tra capitale e lavoro (superamento di capitalismo e social-comunismo) e della restituzione del potere ai cittadini attraverso l'aggregazione in associazioni per comparto lavorativo (superamento del sistema dei partiti).

Il Movimento Distributista Italiano, che appoggia convintamente questa linea, non si presenta a questa tornata elettorale e ritiene il non voto come la scelta più opportuna ma allo stesso invita tutti i cittadini di buona volontà ad aderire numerosi alle sua fila ed a creare gruppi sui vari territori, in modo che si possano valutare insieme le modalità ed i tempi per riuscire ad incidere al più presto in maniera costruttiva sul reale.

Per informazioni ed adesioni

distributismomovimento.blogspot.com

movimentodistributista@gmail.com