Che le cose non vadano ormai è chiaro a tutti, almeno al 98%
della popolazione italiana, cioè a quei molto di più di 56 milioni di persone
che nella nostra nazione dipendono per la propria esistenza sul lavoro proprio
o dei propri famigliari e non su rendite patrimoniali o finanziarie o
sull’occupazione di poltrone politiche ad amministrative in grado assicurare favori
e privilegi.
Le cose non vanno perché tutti i dati micro e macroeconomici
convergono inesorabilmente nel supportare l’esperienza individuale e collettiva
di operai, artigiani, agricoltori, piccole e medie imprese, liberi
professionisti, impiegati privati e pubblici: il lavoro “normale” non basta più
a mantenere dignitosamente la famiglia e mettere qualcosa da parte per il
futuro.
Questa verità viene sperimentata da tutti ma, quasi fosse un
tabù di cui vergognarsi, tenuta rigorosamente segreta.
C’è di più. Questo dato di fatto non ha solo conseguenze
economiche – la famiglia media deve ridurre le spese e tagliare il superfluo
stenta ad arrivare alla fine del mese – ma anche gravissime conseguenze sul
piano morale: se il lavoro – e quindi l’operosità, il merito, l’impegno, la
dedizione, tutte queste positive qualità umane – non pagano più, non vengono
più riconosciute come strumenti privilegiati per creare valore, allora cosa ha
valore?
Possiamo ancora dire che esiste in questa società una vera
giustizia sociale, cioè un criterio efficace ed operativo per cui viene dato a
ciascuno secondo quanto gli spetta? Certamente no?
Ecco dunque la diffusione endemica di una sorta di pervasiva
depressione sociale, particolarmente forte tra la gioventù, caratterizzata da
un cocktail perverso ed sterile di rabbia e scoramento.
Alla rabbia ed allo scoramento si aggiunge poi un senso di
impotenza, perché il corpo sociale viene lasciato nel limbo rispetto alle vere
cause di questa condizione e quindi rispetto alle prospettive realistiche di un
superamento di questa crisi.
Un’analisi attenta della situazione, che non si faccia
distrarre dal frastuono del bombardamento mass-mediatico di notizie, è in grado
di svelare senza ombra di dubbio la radice ultima di questa crisi permanente: l’usura.
Per usura intendiamo non il prestito ad interesse a due
cifre dello strozzino all’angolo della strada ma ogni prestito ad interesse,
quello che ogni istituto bancario privato applica ai suoi clienti, nel momento
in cui crea il denaro dal nulla sotto forma di debito. Per usura intendiamo cioè quel meccanismo che
universalmente tutte le culture della storia – a partire da quella mesopotamica
- hanno riconosciuto come la radice ultima di ogni male sociale ed economico,
il meccanismo per cui il denaro, di per sé sterile ed incapace di produrre
alcunchè, viene magicamente – sarebbe più appropriato dire cabalisticamente –
trasformato in qualcosa di fecondo, in grado cioè di produrre cioè altro
denaro. Questo meccanismo è come un virus che, una volta lasciato libero di
svilupparsi nel tessuto sociale, ne corrode ogni aspetto ed ogni settore, impoverendo
progressivamente ed inesorabilmente le categorie produttrici e facendo
arricchire artificialmente i prestatori di denaro. Contro l’usura, contro il
prestito ad interesse, si sono schierati i padri fondatori della nostra
civiltà, a partire da Aristotele, Cicerone, Seneca, Socrate, per proseguire poi
nel medioevo con tutti i padri della Chiesa e poi San Tommaso d’Aquino, San
Bernardino da Siena. L’usura o prestito
ad interesse, durante tutta la Cristianità medioevale, fu considerato peccato
mortale e chi lo praticava veniva messo al bando dalla società. Questo consentì
quel grande periodo di sviluppo economico-sociale-culturale e demografico che caratterizzò
l’Europa a partire dal 1000 e fino al XIV secolo. Quando i costumi riguardo all’usura si
rilassarono, nella Firenze medicea del XIV, il prestito ad interesse ritornò in
auge e si iniziò così quel processo contro-natura di progressiva spoliazione
della dignità e del ruolo del lavoro rispetto alla dimensione finanziaria,
giungendo infine al paradosso attuale per cui il denaro, da strumento al
servizio dell’uomo e dell’economia, si è trasformato in mezzo di oppressione e
dominio di una minoranza – i banchieri – sulla popolazione.
Che fare dunque?
Il primo passo ovviamente è la presa di coscienza, il
secondo è l’azione.
Il distributismo, in un periodo di drammatico
disorientamento politico, offre una prospettiva ampia ed articolata, una valida
“pars costruens” a cui far riferimento.
Messo da parte il denaro-debito bancario, il prestito ad
interesse od usura, si tratta di ripartire ponendo il buon senso e la
ragionevolezza alla base di ogni iniziativa.
Il buon senso ci dice una serie di cose, semplici e chiare:
-
senza famiglia basata sull’unione stabile di un
uomo ed una donna, il piccolo uomo e futuro cittadino non ha uno spazio
naturale in cui sviluppare i propri talenti. La famiglia va quindi rilanciata
nella sua libertà ed autonomia, e non esiste libertà ed autonomia senza
capacità di autosostentamento. Bisogna quindi puntare alla libertà economica
della famiglia.
-
Il lavoro costituisce la dimensione principale
attraverso cui l’uomo realizza se stesso. Va quindi aumentata la libertà
dell’attività produttiva e per farlo è necessario diffondere al massimo la
proprietà produttiva e puntare all’unione tra capitale e lavoro.
-
L’uomo è un essere per natura sociale e deve
essere libero di aggregarsi con le persone che con cui condivide l’attività
lavorativa per discutere e decidere tutte le questioni importanti che
riguardano la propria dimensione sociale e lavorativa. Va quindi favorita la
creazione di aggregazioni territoriali per comparto lavorativo dotate di
significativo potere decisionale. Il potere deve tornare alla gente che lavora
e va sottratto ai partiti. Va rilanciato quindi il principio corporativo.
-
Il denaro deve tornare ad essere uno strumento
al servizio dell’uomo e dell’economia: l’usura, od interesse sul prestito, va
abolita e la proprietà della moneta all’atto dell’emissione va tolta ad una minoranza
– i banchieri – e restituita all’intera popolazione ed allo Stato.
Solo seguendo queste quattro direttive principali, in tutti
i contesti legislativi possibili – comunali, provinciali, regionali, statali,
internazionali – sarà possibile invertire radicalmente marcia ed incominciare a
ridare dignità al lavoro, cioè a ridare dignità all’uomo, mettendo
definitivamente al bando quel veicolo di corruzione e disgregazione sociale ed
economica che sta infestando la nostra società e che va chiamata, al di la di
ogni reticenza, con il suo proprio nome: usura.
In questo senso la ribellione contro l’usura non è un
diritto ma un dovere di tutti quei cittadini che si dicono ancora animati dall’amore
per il bene comune.
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