Ci si è ormai quasi assuefatti
alle notizie di cronaca giornalistica che ci riportano i reati di corruzione o
concussione dei nostri “onorevoli” rappresentanti politici, a tutti i livelli,
da quello comunale per finire a quello nazionale ed europeo.
Un’assuefazione molto pericolosa
perché ci può spingere a considerare quasi normale una situazione di degrado
che non lo è affatto.
Ancora più pericolo pensare che
l’unica vera causa di tale degenerazione sia di natura morale.
Il sistema di rappresentanza partitico
di per sé è il migliore che esista – si dice – il problema è la mancanza di una
dirittura morale degli uomini ai vertici!
Falso! E totalmente illogico!
Come è possibile infatti
sostenere che un’organizzazione politica che prevede la privazione pressochè
totale del potere reale dei cittadini di decidere le questioni essenziali della
loro vita socio- lavorativa, per concentrare tale potere nelle mani di un’elitè
ristretta – i parlamentari – sia il migliore strumento possibile di
rappresentanza? Poiché questi parlamentari vivono in un loro mondo – il mondo
della burocrazia e dell’amministrazione statale – separato e distante dal mondo
in cui vive l’uomo della strada, cosa dovrebbe trattenere tali rappresentanti
dall’utilizzare la loro posizione per trarre vantaggi personali e per
appoggiare quanti sono in grado di sostenerli con il potere dei soldi? E’
chiaro che l’occasione fa l’uomo ladro, e corrotto aggiungerei io, e questo sistema
– il sistema partitocratico – sembra fatto apposta per indurre il singolo in
tentazione.
Né si può sostenere che
l’istituzione partito possa di per sé costituire una garanzia di trasparenza ed
onestà.
Il partito per definizione
rappresenta un corpo estraneo e divisorio rispetto alla totalità della società
civile, il raggruppamento di un minoranza settoriale della comunità che
condivide una specifica visione del mondo in contrapposizione ad altri
cittadini. Il partito va bene quindi come entità culturale ma nel momento in
cui fagocita ogni spazio del vivere civile e diviene un contenitore finalizzato
alla spartizione del potere, assecondando quella che è la sua natura costitutiva,
condanna la società civile stessa, fatta di famiglie e corpi intermedi
concreti, ad un ruolo forzatamente secondario. Il partito inoltre, dipendendo
per il suo sostentamento da un aiuto di tipo finanziario – di per sé infatti
non produce nulla – è quanto mai condizionabile nelle sue scelte di fondo dagli
umori e dalle convenienze dei suoi finanziatori. La compulsione frenetica da
parte dei moderni demogoghi ad eliminare ogni forma di sussidio pubblico non fa
altro che peggiorare tale situazione. Questo spiega perché per esempio negli Stati
Uniti i programmi dei partiti repubblicano e dei democratico, finanziati in
egual misura dalle grandi banche internazionali – sembrano quasi sovrapponibili
per quanto riguarda la visione di fondo delle questioni sostanziali attinenti
l’economia e la finanza.
I partiti quindi, come
sostenevano i distributisti Chesterton e Belloc agli inizi del secolo scorso, non
sono altro che uno strumento di potere nelle mani della grande finanza e delle
multinazionali per controllare e dirigere da dietro le quinte l’attività
legislativa.
Il problema non è dunque morale
ma strutturale! E il sistema dei partiti che non funziona! Ce lo dimostra il
fatto che negli ultimi 70 anni, malgrado il succedersi vorticoso di formazioni
politiche sempre nuove, la sostanza non è mai cambiata ed anzi la perdita
progressiva di potere reale da parte del popolo à stata proporzionale all’aumento
degli inciuci tra politica e finanza.
Se andiamo più indietro nel tempo
poi, dal 1861 agli anni ’30, la situazione appare ancora peggiore: si constata
infatti una serie infinita e continua di scandali e collusioni perverse tra
politica e finanza, In Italia e nel mondo, di cui ormai si è persa o si è
voluto far perdere la memoria, come se la storia non fosse un continuum ma un eterno
e depressivo presente.
Paradossalmente quindi si può
sostenere che quei pochi politici onesti ed in buona fede che oggi esistono –
immersi come sono in un sistema strutturalmente perverso – sono dotati
necessariamente di una tempra morale superiore alla media, che gli consente di
non soccombere immediatamente di fronte allo sfacelo di cui sono
testimoni. Vengono percepiti - e probabilmente si percepiscono – come pesci
fuor d’acqua, degli illusi idealisti. Inevitabilmente la maggior parte di loro
finisce comunque col cedere, cioè o col conformarsi al generale clima di
corruttela o col distanziarsi dalla politica disgustati.
Che fare quindi? Esiste
un’alterativa alla partitocrazia, che non sia la dittatura del partito unico o
il ritorno ad improbabili monarchie?
Certo, un’alternativa esiste, un’alternativa
fattiva e praticabile che, utilizzando un po’ di buon senso, tutti potrebbero
arrivare a cogliere.
Si tratta semplicemente di ridare
potere alla società civile, articolata nei vari comparti socio-lavorativi che
costituiscono la vita pulsante delle nostre comunità.
Il Movimento Distributista
Italiano non ha dubbi a questo riguardo.
Per prima cosa bisogna restituire
al denaro la sua funzione primigenia di strumento al servizio della prosperità
della società, in modo che ritorni ad essere mezzo per facilitare gli scambi di
beni e servizi e non veicolo di arricchimento indebito di un settore parassita
della popolazione – il sistema bancario. Concretamente ciò vuol dire due cose
molto semplici: ridare ai cittadini ed alle istituzioni pubbliche la proprietà
della moneta al momento dell’emissione ed eliminare l’usura, cioè qualsiasi
interesse sul prestito di denaro.
Parallelamente è necessario
incominciare a lavorare per restituire in forma più organica poteri reali ai
cittadini e questo può essere fatto in un solo modo: aggregando le persone sui
territori per comparto e funzione lavorativa, indipendentemente dalla loro
appartenenza ideologica, partitica, religiosa, e creare forti contenitori, con
alto tasso di democrazia interna, che siano in grado di discutere e decidere le
principali questioni socio-lavorative ed economiche che riguardano la vita
quotidiana delle persone, senza mai uscire ovviamente dalla cornice più ampia
del bene comune.
Si tratta delle Gilde
Distributiste, l’unica forma rappresentativa realmente democratica in grado di
dare voce alle sacrosante esigenze della gente. Le gilde non sono sindacati,
perché non si occupano solo di rivendicare diritti settoriali di parte del
mondo lavorativo ma di affrontare e gestire tutte le questioni davvero
importanti – dalla formazione alla pensione ed alla tutela previdenziale. Le gilde si fanno promotrici di una visione
organica ed umana del lavoro, raccogliendo al proprio interno apprendisti e professionisti
già affermati, giovani e vecchi, dipendenti e proprietari, appartenenti a tutte
le classi sociali ed a tutti ruoli lavorativi. Le gilde non si limitano a
rivendicare ma propongono costruttivamente anche soluzioni e sono in grado di
trovare al proprio interno le risorse per far fronte ai principali problemi
socio-economici-organizzativi, senza dover ricorre necessariamente ad
interventi assistenziali statali. Per esempio, la Gilda della Salute Mentale
potrebbe comprendere al suo interno tutti gli operatori ed i soggetti coinvolti
nella cura e prevenzione del benessere psichico (psichiatri, psicologici,
tecnici della riabilitazione, assistenti sociali, infermieri, rappresentanti di
utenti e familiari e di istituzioni pubbliche e private a vario grado implicate
con la salute mentale stessa) ed occuparsi a 360 gradi di tutti i problemi
concernenti questo settore, a partire dalla formazione degli operatori, alla
stesura di un codice deontologico-comportamentale, dalla determinazione degli
stipendi minimi e massimi, del sistema previdenziale e pensionistico, fino all’organizzazione
e la gestione dei servizi rivolti al pubblico.
Le gilde distributiste
favoriranno al loro interno la massima diffusione della proprietà privata, in
modo da mettere chiunque lo voglia nella condizione di poter diventare
proprietario o con-proprietario dei mezzi di produzione, diffondendo quindi
equità, prosperità e stabilità economico-sociale.
I vari rappresentanti delle gilde
potranno poi riunirsi in un consiglio cittadino, in grado di comporre le
singoli proposte in un visione comune, e dialogare poi, da una posizione di
forza e non subordinata, con i rappresentanti delle istituzioni pubbliche.
Quale spazio avrebbe il
rappresentante di una gilda o corporazione per prendere decisioni, firmare
proposte, sostenere atti che vadano contro quanto democraticamente deciso in
seno alla corporazione stessa? Praticamente nessuno, perché ogni sua azione
pubblica cadrebbe sotto l’occhio attento e vigile dei membri della gilda stessa
ed a questi – e solo a questi - dovrebbe poi renderne conto.
I partiti potrebbero anche
rimanere ed i loro rappresentanti essere eletti in un parlamento, ma il potere
dello Stato e del governo sarebbe limitato a coordinare le attività delle
gilde, a correggere tutte quelle tendenze delle gilde che fuoriuscissero dai
binari del bene comune, a garantire la solidarietà e l’aiuto ai più deboli, a fare rispettare le leggi e l’ordine
pubblico, ad intervenire là dove la società civile non fosse in grado di operare
in maniera costruttiva. Il potere reale, nella maggior parte dei casi,
rimarrebbe nelle mani dei cittadini attraverso le gilde stesse. Lo Stato
quindi, lungi dall’essere abolito, rimarrebbe, ma sarebbe più leggero.
Contrariamente allo Stato capitalista, lo Stato distributista non si
ritrarrebbe però per lasciare spazio ai capitalisti, ai detentori cioè di
capitale, ma favorirebbe in tutti i modi l’unione tra capitale e lavoro e
quindi la distribuzione della proprietà e del potere reale, per mettere i
singoli nella condizione di sviluppare al massimo le proprie capacità, all’interno
delle regole condivise elaborate dalle gilde.
Le gilde distributiste infatti
fanno parte di un quadro più ampio, appunto lo Stato distributista, che in
estrema sintesi nel suo complesso propone quattro punti principali:
-
la centralità anche economica della famiglia,
basata sull’unione di un uomo e di una donna nel matrimonio ed aperti alla
fecondità ed all’educazione della prole
-
la riunione tra capitale e lavoro
-
le gilde distributiste, quali strumento di redistribuzione
dei poteri reali
-
la restituzione della proprietà del denaro al
momento dell’emissione ai cittadini ed alle istituzioni pubbliche.
In questo senso, e senza alcuna
ombra di dubbio, la proposta distributista rappresenta un’alternativa netta e
senza se e senza ma, al sistema capitalista ed a quello social-comunista, che
hanno dimostrato, sia dal punto di vista teoretico, sia dal punto di vista
storico, il loro totale fallimento.
Il pensiero distributista
inoltre, lunghi dall’essere un’utopia, è radicato su ciò che unisce tutti gli
uomini di retta ragione e buona volontà: il senso comune.
Per questo esso non rappresenta
altro che un modo virtuoso di entrare in contatto con il reale.
Per ulteriori informazioni:
distributismomovimento.blogspot.com
Nessun commento:
Posta un commento