Si riporta di seguito l'intervista apparsa in data odierna sulla rivista online "L'intellettuale dissidente" http://www.lintellettualedissidente.it/economia/lalternativa-distributista/
"Il problema del capitalismo, diceva Chesterton, non sono i troppi capitalisti, ma i troppo pochi capitalisti. Una diffusione su larga scala della proprietà dei mezzi di produzione può essere un'alternativa concreta tanto al grande capitale quanto allo stato onnipresente? Lo abbiamo chiesto a Matteo Mazzariol, presidente del Movimento Distributista Italiano.
"Il problema del capitalismo, diceva Chesterton, non sono i troppi capitalisti, ma i troppo pochi capitalisti. Una diffusione su larga scala della proprietà dei mezzi di produzione può essere un'alternativa concreta tanto al grande capitale quanto allo stato onnipresente? Lo abbiamo chiesto a Matteo Mazzariol, presidente del Movimento Distributista Italiano.
di
Luca Gritti - 12 maggio 2017
Ma è davvero possibile oggi pensare un regime socio-economico alternativo
al capitalismo? Da una parte infatti vediamo una globalizzazione sempre
più discussa e contestata, la storia che si credeva finita che riapre
dovunque nuovi scenari, nonché l’ascesa di partiti sempre più ostili nei
confronti dei dogmi e delle imposizioni ideologiche del liberalismo
economico. Dall’altra però, nella nostra esistenza quotidiana,
constatiamo la difficoltà di provare a sfuggire ad un sistema che resta pervasivo
ed onnipresente, e a cui soprattutto non sappiamo opporre un’idea di
società univoca, realista e credibile. I detrattori del capitalismo
infatti sono molti, ma si diramano in correnti e categorie, divergono
sia in termini di provenienze, letture e temperamenti che anche in
termini di prospettive e speranze. C’è chi per combattere i guasti del
liberismo si appella ad una nuova autorevolezza dello stato-nazione, chi vaneggia la sollevazione di moltitudini anarchiche, chi invece propone il ritorno alla campagna,
alla terra e ad uno stile di vita essenziale e agricolo. Esiste però
una proposta alternativa che è magari meno reclamizzata di altre, non ha
sponsor illustri nella grande informazione, ma che ci pare convincente
sotto tanti punti di vista, per realismo e praticabilità, efficacia e
motivi ispiratori. Parliamo del Distributismo, una
dottrina socio-economica che ha quasi più di un secolo, che oggi torna a
far parlare di sé. Ma che cos’è, esattamente, il distributismo? Siamo
andati a chiederlo al presidente del Movimento Distributista Italiano
(MODIT), Matteo Mazzariol, per farci spiegare in primo luogo che cosa
sia questa dottrina, e poi per farci illustrare come ed in che modo
questo movimento abbia provato e proverà in futuro a condurre una “via
italiana” al distributismo.
Luca Gritti: Sul vostro sito si
legge “Il movimento distributista italiano nasce a Bergamo il 13
novembre 2012 da un gruppo di cittadini sinceramente interessati a
rimettere il senso comune, l’adesione al reale e l’uso della retta
ragione al centro dell’agire politico, al di là di ogni ideologia
nell’interesse del bene comune. Il movimento distributista italiano
affonda le sue radici nel pensiero di Gilbert Keith Chesterton e Hilaire
Belloc.” Chi sono Chesterton e Belloc, come giunsero alle loro idee e
cosa prevede la loro dottrina economica e sociale? Quando, come e perché
avete deciso di fondare in Italia un movimento ispirato alle loro idee?
Matteo Mazzariol: La risposta a queste
domande richiederebbe la stesura di un libro. Risponderò in maniera
forzatamente sintetica. Gilbert K. Chesterton e Hilaire Belloc
erano due personalità illustri del mondo culturale inglese dei primi
decenni del XX secolo, cattolici, che, appassionati del bene comune,
elaborarono una visione economica-sociale-politica basata sui principi
eterni della ragionevolezza e del senso comune,
prendendo spunto anche e soprattutto dal magistero della Dottrina
Sociale della Chiesa. La loro dottrina economico-sociale propone la
riunione di capitale e lavoro, la massima possibile diffusione della
proprietà produttiva, una moneta libera da debito al servizio dello
scambio di beni e servizi, la restituzione del potere ai cittadini
divisi per comparto lavorativo (principio corporativo), la centralità
della famiglia naturale basata sul matrimonio di un uomo ed una donna e
la necessità di uno suo autosostentamento economico. Poiché tale visione
ci è sembrata subito molto concreta e ricca di contributi utili a
risolvere i gravi e cronici problemi economico-sociali e politici che
affliggono l’Italia da decenni, abbiamo pensato che fosse una cosa buona
e giusta fondare il Movimento Distributista Italiano.
L.G.: A differenza di quasi tutte le
dottrine che mettono in discussione il capitalismo, voi non demonizzate
la proprietà, anzi, sostenete che il capitalismo l’abbia di fatto
abolita, concentrandola in poche mani, e che per costituire una società
più vivibile occorrerebbe difendere la proprietà, fare il modo che sia
il più possibile distribuita. Lo stesso Chesterton scrive che “la
proprietà è un punto d’onore”. E anche riguardo all’abolizione della
proprietà vaneggiata da Marx, Chesterton non aveva mai nascosto forti
scetticismi (“Confesso che devo sforzarmi non poco per immaginare lo
scenario bizzarro e innaturale in cui un giorno l’umanità dimenticherà
completamente il pronome possessivo”). Che cos’è per voi, anche nel
vivere quotidiano, la proprietà; perché a vostro giudizio va difesa?
M.M: Per il distributismo la proprietà privata
è il modo migliore per gestire i beni, naturali ed artificiali, di
questa terra. Senza proprietà privata sarebbe infatti impossibile
utilizzare in maniera efficiente ed ordinata tutto ciò di cui
disponiamo. Pensiamo solo per un attimo cosa succederebbe se oggetti
quali la casa, la macchina, i vestiti non fossero di proprietà privata
ma lasciati di proprietà comune. Lo stesso dicasi della proprietà
produttiva: che ne sarebbe di un campo agricolo, di un’azienda, se non
fosse chiaro fin dall’inizio chi fosse il loro proprietario. Sarebbe
impossibile organizzare anche la più piccola forma di produzione. In
questo il distributismo prende le distanze nettamente dal
social-comunismo. Il distributismo però sostiene non solo l’importanza
della proprietà privata ma anche la necessità della sua massima diffusione:
se abbiamo un’azienda che produce lavatrici con 100 operai, noi
riteniamo che tale azienda potrebbe essere molto più efficiente e
funzionale se i 100 operai fossero anche proprietari della ditta, e
quindi compartecipi delle decisioni importanti riguardanti il suo
sviluppo, la sua organizzazione del lavoro, la ripartizione degli utili.
In questo modo il loro fine non sarebbe la mera esecuzione di un
compito parziale e selettivo ma la salvaguardia del benessere
dell’azienda stessa, a cui devolverebbero tutte le loro energie. La resa
del singolo operario aumenterebbe vertiginosamente, facendo così
aumentare considerevolmente la resa totale dell’azienda. La massima
diffusione della proprietà privata è quindi la condizione essenziale
perché il più alto numero possibile di persone in una data regione
possano sviluppare al massimo le proprie potenzialità. Poiché lo
sviluppo di tali potenzialità costituisce alla fine il fattore
determinante in grado di incidere sulla ricchezza reale di un
territorio, si può sostenere senza tema di smentita che la massima
diffusione della proprietà produttiva sia il principale requisito
strutturale che sta alla base di ogni sistema economico realmente
produttivo, stabile e quindi prospero. In questo il distributismo prende quindi le distanze in maniera netta dal capitalismo.
Per il distributismo il capitalismo è
infatti quel sistema economico-sociale che privilegia la separazione tra
capitale e lavoro, privilegia cioè che chi lavora non sia proprietario
dei mezzi di produzione, e che la proprietà, produttiva e non, venga
quindi concentrata nelle mani di pochi. Il distributismo invita anche a
riflettere sulla coincidenza pressoché totale tra proprietà, potere e libertà
ed ad osservare che in questo senso capitalismo e social-comunismo non
siano altro che due facce della stessa medaglia: due sistemi, cioè, che
si oppongono entrambi alla massima possibile diffusione della proprietà
privata e del potere reale, e quindi della libertà, due sistemi che
puntano inesorabilmente a ciò che Hillare Belloc già nel 1912 definì Stato Servile.
Lo Stato Servile, secondo il distributismo, è proprio lo scenario che
descrive meglio la condizione attuale della società, con il paradosso
che viene fatto passare, dai mass media e dalla cultura asserviti ai
poteri forti, come il sistema di massima libertà mai raggiunto
dall’umanità.
L.G: Un altro dei grandi temi di
Chesterton è la superiorità della realtà sull’utopia. In che senso è
meglio essere realisti che utopisti? Perché il Movimento Distributista
rappresenta un’alternativa al capitalismo più “realista” rispetto alla
decrescita felice, o a forme redivive di marxismo?
M.M: L’adesione al reale, al senso comune ed alla ragionevolezza sono i punti di fondo filosofici del distributismo. Per il distributismo la realtà esiste,
c’è là fuori, ed il compito dell’uomo è quello di cercare di adeguare
la propria mente a tale realtà. Sembrerebbero cose scontate ma non lo
sono. Molte correnti filosofiche attuali sostengono infatti che non
esiste alcune realtà e che l’uomo sia il creatore di tutto ciò che
esiste. Questa posizione consente al distributismo, da un punto di vista
storico, economico, sociale e politico, di porsi al di là ed oltre ogni
ideologia, se per ideologia si intende un programma di società dettato
principalmente dalla volontà dell’uomo, sciolta da un legame fondante
con il reale.
Ciò che i distributisti sostengono è che
social-comunismo e capitalismo, con tutti i loro derivati più o meno
edulcorati, sono falliti sotto tutti i punti di vista, perché hanno
dimostrato sia un’inconsistenza concettuale interna –
dimenticando nelle loro asserzioni il riferimento alla reale natura
umana – sia un’incapacità di plasmare positivamente il reale, producendo
una serie infinita di inefficienze, diseguaglianze, ingiustizie,
precarietà e crisi economico-sociali, che stanno conducendo l’umanità
sull’orlo di un baratro. La proposta distributista, invece, non si basa
su un’astrazione concettuale, né è un parto della fantasia o
dell’idealismo umano, ma è semplicemente la trasposizione sul piano
economico-politico-sociale del senso comune, cioè della capacità innata
nell’uomo di riconoscere con la retta ragione il reale nelle sue
svariate componenti.
L.G.: Nel suo romanzo Sottomissione,
Michel Houellebecq immagina lo scenario distopico di una Francia
islamizzata e, con un notevole gusto del paradosso, sostiene che questa
società è amministrata secondo i precetti del distributismo, che è una
dottrina economica che si fonda anche, a livello sociale, su una grande
stabilità famigliare. Al di là della provocazione dello scrittore
francese, il distributismo è impensabile senza un ritorno ad un nucleo
famigliare più stabile, più duraturo, indissolubile? C’è un connubio tra
distributismo e famiglia intesa in senso “tradizionale”?
M.M.: La risposta a questa domanda è la
diretta conseguenza di quanto esposto nella risposta precedente. Il
distributismo non pone il suo accento sulla famiglia “tradizionale”, se
per tradizionale si intende ciò che viene “tradotto” semplicemente da
una generazione all’altra, senza nessuna riflessione sulla sua congruità
e ragionevolezza. Il distributismo vuole invece porre l’accento su
quelli che sono i reali bisogni del cuore dell’uomo e
sulle modalità per una loro possibile realizzazione. Non a caso ho usato
l’espressione “cuore”, un termine che sintetizza l’inscindibile unione
di mente e corpo, spirito e materia, che caratterizza la persona umana.
In questo senso, alla luce del senso comune che è in dotazione a tutto
il genere umano, il distributismo sostiene che l’unione duratura di un
uomo ed una donna aperti alla procreazione costituisca il nucleo sociale
fondante, dalla cui solidità e coesione dipende la solidità e coesione
di tutto il corpo sociale. La famiglia quindi è quello spazio naturale
in cui si forma il futuro uomo, attraverso un nutrimento materiale,
psicologico e spirituale che lo porteranno ad essere lui il vero
“capitale umano” che, sviluppati i propri talenti, sarà poi in grado di
contribuire al benessere delle comunità. Se si vuole realizzare il bene
comune, per i distributismo non si può prescindere dall’adeguare i vari
strumenti legislativi alle esigenze di quell’entità sociale naturale che
chiamiamo famiglia e che preesiste a qualsiasi ordinamento statuale.
L.G: Dopo la crisi economica del
2008, molti autori critici del nostro sistema economico che erano stati
dimenticati ed avevano subito una sorta di damnatio memoriae sono stati
riabilitati, ripresi, ridiscussi. Tra questi, ci sono anche i padri del
distributismo? Esistono altri Movimenti Distributisti, oltre al vostro,
in Europa e nel mondo?
M.M: In Europa il gruppo distributista
più forte ed organizzato è forse quello che fa capo all’inglese Phillip
Blond, il fondatore della fondazione ResPublica.
Tale fondazione ha deciso di concentrare i propri sforzi nell’elaborare
progetti specifici distributisti, con tanto di business plan, nei vari
settori economico-sociali (per esempio educazione, artigianato,
industria, agricoltura, finanza), con l’obiettivo di superare l’impasse
causato dall’attuale vuoto di modelli e di proposte concrete di
sviluppo. Molti di questi progetti sono stati ripresi da ministri dei
vari schieramenti politici inglesi e sono in via di attuazione. Un
esempio per tutti: la trasformazione di impiegati pubblici in associazioni di proprietari a cui vengono affidati determinati servizi sociali. In Spagna c’è la Cooperativa Mondragon,
fondata su principi distributisti, che con i suoi circa 80.000 iscritti
ed i suoi continui successi economico-sociali, rappresenta l’esempio vivente di come il distributismo possa realizzare nella pratica efficienza ed equità sociale.
Esistono poi altri movimenti di entità minore in Romania, Polonia,
Spagna e gruppi che si rifanno alle idee distributiste in quasi tutti i
paesi europei. Negli Stati Uniti è attiva la Distributist Review,
una rivista online che funge da collante tra tutti i distributisti
nord-americani e di lingua inglese, molti dei quali ricoprono ruoli
significativi nel mondo accademico. Recentemente il distributismo si sta
diffondendo anche nei paesi dell’America del Sud.
L.G.: Le piccole e medie imprese, i
piccoli artigiani i commercianti, le aziende a gestione famigliare sono
sempre state, storicamente, il fondamento più solido dell’economia
italiana. In questo senso, il nostro paese può esercitare una resistenza
maggiore rispetto a certe derive “disumanizzanti” del capitalismo
globale? L’Italia ha, senza saperlo, una vocazione “distributista”?
M.M: Senza dubbio, l’Italia ha una vocazione distributista,
almeno per quanto riguarda la famiglia e la massima possibile
diffusione della proprietà produttiva nella forma delle piccole aziende.
Le banche popolari e cooperative sono inoltre un tentativo di operare
una finanza al servizio del territorio, mentre dal punto di vista
politico la partitocrazia ha purtroppo occupato tutti gli spazi ormai da
più di 70 anni, lasciando poco spazio alla distribuzione del potere
politico alle associazioni di lavoratori-proprietari per comparto
occupazionale (gilde o corporazioni). Le aziende famigliari e le piccole
e medie imprese, gli artigiani, i piccoli commercianti, i liberi
professionisti, cioè forse la fascia produttiva più importante della
nostra nazione, rappresentano una realtà in cui chi lavora è nella
maggior parte dei casi anche proprietario dei mezzi di produzione. Il
problema di fondo però è che, in assenza di una consapevole politica
economica distributista da parte del governo, tutte queste forze sane
della nostra nazione, invece che essere supportate e consolidate,
vengono svantaggiate e vilipese, svuotate sempre più di poteri e ridotte
in miseria da misure legislative e fiscali che avvantaggiano sempre e
comunque la concentrazione di capitali nelle mani di pochi".
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