giovedì 2 novembre 2017

DISTRIBUTISMO: ALCUNE IDEE DI BASE


1) la scienza economica deve essere subordinata alla morale sociale; in altra parole: il “che cosa è “ deve essere subordinato al “cosa dovrebbe essere”.
2) i bisogni del profitto e della produzione devono essere subordinati ai bisogni della gente. Quando si crea tale conflitto è necessario prendere sempre posizione in favore dei bisogni della gente.

Da questi due principi derivano una serie di corollari:
- si deve dare maggior enfasi al consumo rispetto alla produzione, in quanto il fine ultimo della produzione è il consumo e non il guadagno dei produttori. La qualità dei prodotti deve riassumere un’importanza centrale.
- si deve dare maggior enfasi alla produzione rispetto al denaro ed alla finanza, in quanto lo scopo del denaro e della finanza è la produzione.

Bisogna quindi reintegrare ciò che la scienza economica razionalista e la rivoluzione industriale hanno separato:
- il lavoro e la proprietà, per superare le sterili lotte tra capitale e lavoro
- il lavoro e la personalità degli individui, per ridare un senso umano al lavoro umano
- il lavoro e la famiglia, per superare la separazione tra luoghi di lavoro e famiglia
- il lavoro e la comunità, per creare spazi di aggregazione solidale per comparto lavorativo.

Tutto ciò rappresenta un’alternativa netta a capitalismo e social-comunismo e, in una parola, si chiama distributismo.

Vedi distributismomovimento.blogspot.com

venerdì 27 ottobre 2017

LE RADICI DEI NOSTRI MALI ECONOMICO-SOCIALI: LA SEPARAZIONE TRA CAPITALE E LAVORO


La globalizzazione ci consente oggi di essere aggiornati in tempo reale rispetto ad una miriade di informazioni provenienti dai più disparati angoli dei mondo e di ottenere in tempi rapidissimi, attraverso internet, dati che prima erano accessibili solo a costo di lunghe ricerche.
Tutto questo però ha una suo lato negativo. La nostra mente infatti rischia di essere sopraffatta da tale mole di informazioni e di perdere la sua qualità più importante: la capacità di critica, di “intus” (=dentro) “legere” (=leggere), di “leggere dentro” le notizie. Rischiamo cioè di accumulare nozioni ma di perdere la nostra intelligenza.
Ciò è vero soprattutto per quanto riguarda la situazione economico-sociale. Gli “esperti” ci sommergono di cifre e di termini criptici e super-specialistici (“rapporto deficit/PIL”, “quantitative easing”, “pareggio di bilancio”, “bilancia dei pagamenti”), ma cosa veramente capiamo noi dell’economia?
Soprattutto: cosa capiamo delle vere cause che hanno indotto questa grave crisi economico-sociale strutturale iniziata nel 2007 e tuttora perdurante?
Il distributismo (distributismomovimento.blogspot.com) a questo proposito può essere di grande aiuto.
Riflettiamo insieme: qual è il fenomeno economico-sociale che sta alla base delle costante instabilità economica del sistema capitalistico e della evidente progressiva accumulazione di beni e risorse nelle mani di una sempre più ristretta elitè di persone?
La risposta è molto semplice: la separazione tra capitale e lavoro.
Cosa vuol dire “separazione tra capitale e lavoro”?
Vuol dire che si considera buono e giusto che da una parte ci sia chi sia possessore del capitale e dall’altra chi offra la propria attività lavorativa. Non quindi capitale e lavoro uniti nelle stesse persone, cioè nel lavoratore che è anche proprietario dei mezzi di produzione e che quindi ha un ruolo attivo in tutte le fasi decisionali dell’attività produttiva ed è anche destinatario finale dei proventi di tale attività ma una netta separazione tra la figura del proprietario e del lavoratore. Non quindi due uomini liberi, ma la divisione tra un uomo libero ed un uomo “dipendente”.
Questa modalità di intendere l’attività economica ciclicamente si affaccia alla ribalta della storia: il mondo romano per esempio, dopo un periodo iniziale in cui aveva prevalso  la distribuzione della proprietà produttiva, di natura prevalentemente agraria, progressivamente, anche con l’affermarsi della schiavitù, avanzò verso una sempre più rigida separazione tra capitale e lavoro, un’affermazione che comportò immediatamente il sorgere di problemi economico-sociali molto simili ai nostri (impoverimento generale della classe media, concentrazione della ricchezza nelle mani di pochi). Speculazioni economiche e finanziarie erano all’ordine del giorno nella Roma imperiale ed il popolo ne subiva le conseguenze. L’avvento del cattolicesimo rivalutò invece enormemente il lavoro come principale fattore dell’economia e primario creatore di valore, arricchendolo di una dimensione sacrale e corredentrice, ed allo stesso tempo condannò fortemente l’usura, cioè il diritto del capitale a rigenerarsi dal nulla attraverso il prestito ad interesse. Il monachesimo diffuse dovunque il motto “ora et labora”, ponendo appunto il lavoro e la dimensione spirituale dell’esistenza, e non il capitale, al centro dello sviluppo economico.  Questo consentì secoli di stabilità e prosperità economica, che incominciarono ad incrinarsi nel momento in cui, con il Rinascimento, il mondo occidentale iniziò lentamente ad abbandonare gli insegnamenti morali della Chiesa in campo economico, per intraprendere ancora una volta la strada della separazione tra capitale e lavoro. La Firenze di Lorenzo De Medici del XV secolo segna in questo senso il passaggio di un’epoca: Lorenzo De Medici può considerarsi ad tutti gli effetti il precursore della figura del banchiere, dell’imprenditore e del politico moderno, che da una parte trae immensi profitti dalla separazione tra capitale e lavoro, essendo possessore di capitali, dall’altra cerca di imbonire le masse con il “panem et circenses”.
Fu poi l’Inghilterra del XVI sec., con Enrico VIII e la sottrazione delle immense proprietà della Chiesa Cattolica, che passarono dall’uso comune all’impiego capitalista da parte di una ristretta cerchia oligarchica di grandi famiglie, svincolato dagli insegnamenti morali della Chiesa. Ciò segno l’avvio in grande stile di quel  sistema economico che si caratterizza per l’assoluta centralità della separazione tra capitale e lavoro: il capitalismo
Nel 1694 la fondazione della Banca d’Inghilterra, di proprietà privata, segnò la definitiva conquista del capitale sullo Stato, in quanto per la prima volta veniva affidata a dei banchieri privati la proprietà della moneta a corso legale al momento dell’emissione. Si diede cioè ad un gruppo di capitalisti privati il monopolio della produzione monetaria ed il diritto di creare questa moneta dal nulla solo ed esclusivamente come debito dello Stato e dei cittadini. Tale debito, destinato inevitabilmente a crescere in maniera esponenziale, sarebbe poi stato ripagato dallo Stato stesso, attraverso le tasse od una restrizione dei servizi dei pubblici. Il modello della Banca d’Inghilterra fu poi esteso nel corso dei secoli a tutte le altre nazioni (la creazione nel 1913 della Federal Reserve rappresenta una tappa importante di questo processo). Si spiega così e solo così il fatto che in tutto il mondo Stati, imprese e cittadini sono sempre più indebitati con il sistema bancario. Nel corso dei secoli successivi fu il liberalismo a dare ulteriore impulso alla separazione del capitale dal lavoro. Il liberalismo infatti “liberò” il capitale da ogni residuo freno di ordine morale, consentendone l’ulteriore sviluppo sotto il profilo finanziario. Il turbo-capitalismo dei nostri giorni, il totale dominio della finanza sull’economia reale, non è quindi altro l’esito finale di questo processo dalle radici ben più profonde.
Che fare dunque?
E’ inutile cercare di porre qualche toppa alle continue falle che il sistema capitalistico continua a presentare. Non si può procedere con una visione miope dei fatti, reiterando poi sempre e comunque, con una vera e propria coazione a ripetere, gli stessi errori che sono alla base della grave crisi odierna.
E’ necessario prendere atto che il capitalismo è fallito perché fallimentare è il principio che sta alla base della sua prassi operativa: la separazione tra capitale e lavoro.
Bisogna quindi armarsi di buon senso e ragionevolezza e procedere nella direzione del distributismo, che in maniera netta e chiara pone l’unione tra capitale e lavoro come uno dei caposaldi irrinunciabili di ogni ordine economico-sociale che voglia essere equo, prospero ed umanamente soddisfacente. 
Per informazioni: distributismomovimento.blogspot.com

martedì 17 ottobre 2017

PERCHÉ IL CAPITALISMO È INCOMPATIBILE CON IL CATTOLICESIMO: IL PUNTO DI VISTA DISTRIBUTISTA



 Dopo i pronunciamenti espliciti di Pio XII sul comunismo, in ben tre documenti ufficiali, il 1° luglio del 1949 (“Decreto Generale”), l’11 agosto 1949 (“Dichiarazione sui matrimoni”) ed il 28 luglio del 1950 (“Monito sull’educazione della gioventù”) nell’opinione pubblica è passato il messaggio che il comunismo come tale sia incompatibile con il cattolicesimo, cioè che la visione filosofica sottostante al comunismo – il materialismo dialettico – rappresenti un opposizione netta alla visione del mondo cattolica.
Altrettanto non è però successo con il capitalismo. Non esiste cioè ad oggi una dichiarazione esplicita del Magistero della Chiesa che prenda le distanze in maniere ferma e definitiva dal capitalismo. Ciò ha generato una serie di confusioni, una serie cioè di libere interpretazioni, basate su congetture di vario genere, per cui, nell’ambito cattolico, si è assistito allo svilupparsi di teorie che esaltano il capitalismo (per esempio, Michail Novak, “Lo spirito del capitalismo democratico ed il cristianesimo”) ed altre che lo criticano (per esempio, Amintore Fanfani, “Cattolicesimo, protestantesimo e capitalismo”).
La complessità della questione è dettata anche da una certa confusione semantica, per cui il termine stesso capitalismo viene spesso usato con connotazioni diverse e non univoche. Così, molto spesso si tende a confondere “libero mercato” con “capitalismo”, come se il capitalismo fosse sinonimo appunto di della condizione di massima libertà possibile degli scambi di beni e servizi all’interno della società, mentre in realtà è dimostrabile che è vero l’opposto.
Ogni discorso sul capitalismo pertanto rischia di essere inficiata da fraintendimenti contenutistici e concettuali, se non ci accorda una volta per tutte sull’essenza del capitalismo stesso.
In questo senso il contributo di G.K.Chesterton e di H.Belloc, intellettuali cattolici inglesi del XX sec., risulta quanto mai illuminante. Questi autori infatti hanno brillantemente delineato, secondo i principi di senso comune e ragionevolezza, il nucleo costitutivo del capitalismo: per capitalismo, propongono, va inteso quella visione sistemica dei processi produttivi e di scambio che pone come principi fondamentali, indispensabili ed auspicabili la separazione tra capitale e lavoro ed una crescita del capitale il più possibile “liberata” da fattori di morale sociale.
Si accompagnano poi a questi fattori essenziali altri correlati, importantissimi per creare le condizioni per cui questi due punti si possano realizzare:
- la necessità di limitare al massimo la regolazione dei mercati da parte dei vari attori presenti nel corpo sociale, per consentire la massimo libertà di azione al capitale, svincolato dal lavoro.
- la necessità di eliminare tutti quei corpi intermedi, rappresentativi degli interessi delle varie categorie produttive e sociali, che potrebbero ostacolare il processo di accumulo dei capitali
- la necessità di concentrare nelle mani di pochi il potere politico per garantire che vengano emessi quei provvedimenti legislativi che creino le condizioni per il massimo sviluppo della concentrazione di capitali.
Il lato perverso del capitalismo consiste inoltre nel fatto che tutto questo processo di concentrazione del potere nelle mani del capitale rispetto al lavoro, con la creazione di una minoranza sempre più ristretta di proprietari ed una massa sempre più grande di “dipendenti”, viene fatto passare, attraverso una massiccia operazione di condizionamento sociale ed ideologico, come l’inesorabile e virtuoso avanzamento della libertà, mentre nei fatti ne rappresenta l’effettiva negazione: come si può infatti definire “libera” la stragrande maggioranza della popolazione, che viene sistematicamente e progressivamente privata della possibilità di decidere direttamente le regole ed il funzionamento del proprio ambito lavorativo e che viene sempre più privata della proprietà dei mezzi di produzione, vero ed ultimo indicatore dell’autentica libertà economico-sociale?
Come si pone la Dottrina Sociale della Chiesa rispetto a questi assunti fondamentali del capitalismo?
La separazione tra capitale e lavoro, che è alla radice di ogni sperequazione sociale ed economica e che limita fortemente la libertà reale di tutti quei soggetti privati della proprietà dei mezzi di produzione, non può altro che essere considerata in maniera negativa dal pensiero sociale cattolico. Essa rappresenta un vero e proprio vulnus economico-sociale, da considerare un male tollerabile da eliminare e superare e non certo un sistema di sviluppo da additare a modello. Tale separazione tra capitale e lavoro ha ripercussioni negative di ampia portata soprattutto in ambito finanziario. Con una serie di passaggi legislativi transnazionali, gli esponenti del mondo capitalistico sono riusciti ad imporre su scala mondiale un tipo di denaro, il denaro-debito, che si configura come capitale in grado di auto-moltiplicarsi dal nulla. Contrariamente a quanto ingenuamente la genti oggi pensi infatti,, il denaro viene infatti al momento attuale prodotto “ex nihilo”, appunto dal nulla, come “fiat money”, con un’evidente grottesca allusione al testo biblico della genesi, dal sistema finanziario privato, che sta al vertice del sistema capitalista stesso. Ciò ha enormi ed inevitabili ripercussioni negative sul sistema economico-sociale, poco indagate dal sistema mass-mediatico e culturale foraggiati dal grande capitale, la più importante delle quali è costituita dall’enorme debito che affligge Stati, imprese e cittadini verso il sistema bancario stesso. Poiché il debitore si trova sempre in una condizione di inferiorità e sudditanza verso il creditore, è facile immaginare quali siano i gravi, massicci e pervasivi condizionamenti che il sistema bancario stesso è in grado di operare verso l’intero corpo sociale, a cominciare dalla politica. Si spiega così il fatto, da tutti osservabile, che le grandi banche commerciali e le principali banche centrali detengano oggi un potere reale superiore a quello dei legittimi governi eletti dal popolo. Quanto tutto ciò sia contrario ai basilari principale della Dottrina Sociale Cattolica è superfluo menzionarlo.
Ancora meno può essere accettabile, da un punto di vista cattolico, porre il massimo possibile accrescimento del capitale come principale e determinate agente della vita economica. Ciò rappresenta infatti null’altro che la strutturazione ideologica di uno dei principali vizi della vita morale e sociale, l’avarizia, incompatibile con ogni equo, naturale ed armonioso sviluppo della vita economico-sociale, come lo scenario attuale ci può ampiamente dimostrare.
Egualmente incompatibile con l’autentico pensiero sociale cattolico appare la supina accettazione della progressiva eliminazione del potere reale di tutti quei corpi intermedi che rappresentano l’espressione aggregativa naturale dei vari comparti lavorativi sui territori, il luogo privilegiato in cui il singolo può intrecciare rapporti sociali costruttivi con il proprio prossimo e partecipare alle decisioni importanti che riguardano il proprio ambito socio-lavorativo. Eliminare questi corpi sociali intermedi tra la famiglia e lo Stato, ha sempre insegnato la Dottrina Sociale della Chiesa, vuol dire bloccare la vera prosperità e libertà economico-sociale, vuol dire anteporre lo Stato alla società, inibendone le potenzialità e l’originalità creativa.
Da questo punto di vista è innegabile la coincidenza tra la visione capitalista e quella social-comunista, entrambe a favore di una sempre maggiore concentrazione dei poteri a livello centrale e dello smantelllamento progressivo dei vari corpi sociali-intermedi, per giungere a quel famoso Stato Servile indicato gia nel 1913 dal distributista Hilaire Belloc, in cui il singolo si trova solo e privato di ogni potere reale nei confronti della macchina statale. Di fronte al venire meno del riconoscimento di un ordine sociale naturale, informato dalle leggi eterne di Dio, rimane solo la società contrattualista di Rousseau e il Leviatano di Hobbes, vere e proprie macchine totalitarie che si basano solo sulla legge del contratto e quindi del più forte. Poiché nella società di oggi – e seconda la mentalità capitalista – la forza viene determinata dalla quantità di capitale o denaro posseduto, è facile dedurre chi finisca per essere il principale gestore delle principali istituzioni esistenti.
Ancor meno compatibile con una visone cattolica è il presupposto capitalista, privato di ogni fondamento logico, per cui la dimensione morale dovrebbe essere tenuta fuori dall’ambito sociale-economico, come se ogni azione umana non si dovesse confrontare con la libera scelta tra bene e male e le conseguenze che da essa derivano.
In conclusione: appare evidente, a chi sia disposto ad usare la retta ragione per intercettare il reale, che i presupposti teorici del capitalismo sono incompatibili con il pensiero sociale cattolico, così come è stato coerentemente elaborato nei secoli dal Magistero della Chiesa. Le implicazioni pratiche di questa considerazione sono enormi. Di fronte all’evidente fallimento strutturale del sistema liberal-capitalista, i laici cattolici hanno un compito importante e decisivo: rimanere fedeli al vero – cioè all’adeguamento tra intelletto e realtà - ed indicare all’umanità stordita e confusa la via da seguire per ristabilire un ordine sociale a misura d’uomo e secondo la volontà di Dio, senza scendere a compromessi con ideologie e teorie che hanno dimostrato nei fatti la loro inconsistenza e nocività.
In questo senso, il distributismo di Chesterton e Belloc, radicato sul senso comune, la ragionevolezza, e la Dottrina Sociale della Chiesa, rappresenta oggi un patrimonio di immenso valore in grado di indicare una visone alternativa, sostenibile e percorribile rispetto alle gravi distorsioni del social-capitalismo e del capitalismo.

sabato 16 settembre 2017

LA VERA QUESTIONE MORALE: LA SCELTA TRA USURA E LAVORO




Corruzione, concussione, favoritismi, nepotismi, auto-blu in eccesso, vitalizi folli, interessi privati in pubblico ufficio: la lista dei mali morali che affliggono la politica è pressochè infinita. La ritroviamo quotidianamente sulle pagine di cronaca dei giornali, l’ascoltiamo da amici, cognati, zii e cugini che hanno subito direttamente o sono stati testimoni di qualche angheria.
Da semplici cittadini rimaniamo indignati ed impotenti, oscillanti tra la rassegnazione e la rabbia.
Eppure la vera questione morale non è questa ma un’altra, ben più grave.
Da che uomo è uomo, l’individuo cresce e si sviluppa, passando dalla potenza all’atto: la singola persona non nasce giù fatto, si deve costruire vivendo con gli altri. Ognuno di noi ha talenti, capacità che chiedono di essere realizzati ma che hanno bisogno di determinate condizioni per farlo.
Così chi vuole diventare ingegnere, medico, avvocato o ricercatore, deve innanzitutto avere le qualità intellettuali, deve essere inserito in un contesto educativo-formativo-logistico-organizzativo e sociale-lavorativo adeguato. Chi vuole diventare contadino deve avere a disposizione mezzi e terreni, chi allevatore animali e fattorie, chi commerciante dei prodotti da vendere, chi industriale un numero sufficiente di manodopera e mezzi tecnologici e via di seguito.
Il benessere di una società dipende quindi essenzialmente da due fattori: una variabile indipendente ed una variabile dipendente.
La variabile indipendente è la tipologia e la quantità di risorse primarie naturali presenti sul territorio (clima, terreni, minerali, idrografia). La variabile dipendente è invece la capacità dei suoi abitanti di passare dalla potenza all’atto, di investire cioè al massimo le capacità ed i talenti dei singoli.
Mentre per la variabile indipendente c’è poco spazio operativo, per la variabile dipendente il tutto si gioca a livello di convenzioni ed accordi umani e la convenzione per eccellenza in questo settore è il denaro.
Il denaro è nato per essere lo strumento che consente all’essere umano di effettuare quello scambio di beni e servizi che rende possibile lo sviluppo massimo delle potenzialità del singolo.
Esempio concreto: in Italia c’è il problema drammatico del rischio idro-geologico. Centinaio di migliaia di abitazioni sono a rischio di essere travolte dagli effetti degli agenti atmosferici per cui è necessario intervenire al più preso con una vasta operazione di bonifica ambientale. Nello stesso tempo esiste una disoccupazione giovanile superiore al 25% ed una massa notevole di laureati, diplomati e semplici lavoratori disoccupati o sottooccupati e quindi messi nelle condizioni di non poter esprimere le loro capacità. In una situazione simile, del tutto folle per chiunque la considerasse da un punto di vista disincantato ed obiettivo, lo Stato e le autorità responsabili del bene comune  hanno il dovere, non il diritto, di mettere in mano a questa massa di senza lavoro dei pezzettini di carta chiamati banconote per risolvere una volta per tutte il problema del dissesto idrogeologico: altro che cervelli o muscoli in fuga!
Lo stesso discorso vale per tutti i servizi carenti con cui i cittadini devono quotidianamente confrontarsi: giustizia, sanità, scuola, università, edilizia pubblica, trasporti, viabilità.
Il fatto che ciò non avvenga, che si continui a vivere in una condizione di estrema precarietà rispetto a tutti questi beni e servizi è, per chi è cattolico, un peccato che grida vendetta al cospetto di Dio, per chi è ateo l’estrema offesa alla dignità della persona umana.
Non si tratta infatti di un fatto ideologico o religioso-confessionale, non di tratta di destra o di sinistra, di progresso o di conservazione, si tratta di mera e semplice insulto alla ragione umana, di un offesa eclatante al buon senso ed alla ragionevolezza.
Non si può fare, diranno molti, perché ce lo impediscono le regole dell’economia. Falso! Duecento volte falso! Ciò che ci impedisce di dar corso ad una gestione costruttiva e positiva del denaro, cioè di mettere il denaro al servizio delle persone e dell’economia reale, è una cosa sola: il fatto che il denaro oggi nasca solo ed esclusivamente di proprietà del sistema bancario come debito di Stati, imprese e cittadini.
Questo meccanismo – che non si è creato da solo ma è il frutto dell’azione di uomini con nome e cognome –   sancisce il dominio assoluto dell’usura sul lavoro, cioè del reddito sterile che deriva dalla moltiplicazione del denaro rispetto al reddito che deriva dall’operosità e dall’ingegno umano.
Tutto ciò non è accettabile, primariamente dal punto di vista morale e secondariamente dal punto di vista economico e sociale.
Non è accettabile che un infermiere che offre il suo servizio alle persone malate abbia uno stipendio con cui non è in grado di mantenere se stesso, tanto meno la propria famiglia; non è accettabile che chi ha lavorato per 40 anni  si ritrovi con una pensione da fame; non è accettabile che venga stroncato sul nascere l’entusiasmo e la voglia di fare dei giovani non per mancanza di cose da fare ma per mancanza di uno strumento convenzionale chiamato denaro;  non è accettabile che la ricerca indipendente e libera delle nostre intelligenze migliori venga affossata dalla mancanza di pezzi di carta od input elettronici;  non è accettabile che le persone per queste stesse ragioni non mettano al mondo figli. Non è accettabile in sintesi che si asservisca la vita della maggior parte della popolazione ad una convenzione, nell’indifferenza colpevole e senza scuse dei politici di turno.
Questa è la vera questione morale. Una questione di importanza assoluta da cui dipende, senza ombra di dubbio, il futuro della nostra società: dobbiamo scegliere tra civiltà e barbarie, tra libertà e servitù, e quindi, in ultima analisi, tra usura e lavoro: tertium non datur.

Per informazioni: distributismomovimento.blogspot.com

mercoledì 16 agosto 2017

LA VERA RIVOLTA MORALE: QUELLA DEL DISTRIBUTISMO CONTRO IL CAPITALISMO

La natura umana - ce ne rendiamo conto ogni giorno - è fatta in maniera tale che ripugna in maniera netta l'ingiustizia, la sopraffazione del più forte sul più debole, la prevaricazione del potente sul bisognoso. In sintesi, la natura umana, nella sua libertà, è essenzialmente morale: persegue le azioni buoni e rigetta quelle cattive.

Esistono invece due sistemi economici, il capitalismo ed il social-comunismo, che si fondano sulla pretesa contro-natura, e quindi assurda, di eliminare la dimensione morale della scelta dall'agire economico.
Il capitalismo, al pari del social-comunismo, nega infatti che ogni azione che l'uomo compie in ambito economico possa essere buona o cattiva per sè, per la propria famiglia, per gli altri cittadini, imponendo, paradossalmente, una propria morale, quella dell'utile. Così, nello stabilire il prezzo di beni e servizi o le caratteristiche di un contratto di lavoro, le persone che vi si impegnano, seguendo il capitalismo, non saranno più orientate all'individuazione di prezzi e contratti giusti ma ciascuno al raggiungimento del proprio massimo profitto. Grazie al liberalismo - presupposto fondamentale del capitalismo- , che appunto ci vuole liberare dall'ingombrante presenza della morale in economia, il parametro ultimo in base al quale verranno fissati prezzi e contratti sarà quello basato sulla forza e sull'anonimità del numero.  Non solo: la liberazione dalla morale ha portato al via libera di pratiche economiche, quali  per esempio il denaro-debito, che attraverso l'inganno sistematico operato dal sistema bancario nei confronti della popoIazione, ha sottomesso totalmente il lavoro alla finanza, i cittadini ai banchieri. Si tratta di una vera e propria usura, cioè della creazione di denaro dal nulla operata dal sistema bancario ai danni del resto del corpo sociale . Il tutto, paradossalmente e diabolicamente - se è vero che il diavolo è il padre della menzogna - attraverso l'introduzione di una falsa morale, quella per cui il rispetto delle norme contrattuali diventa criterio morale assoluto, indipendentemente dal fatto che questi contratti siano stati stilati in assenza e quindi in opposizione ad ogni basilare principio di morale sociale, di cui si vuole negare l'esistenza e la validità. Per esempio, se i salari vengono fissati solo in relazione alle forze di mercato, è chiaro che il padrone si troverà sempre in una posizione di vantaggio rispetto al lavoratore che rischierà la fame se non dovesse accettare l'offerta. Il risultato del capitalismo - cioè dell'abbandono di una morale in ambito economico e di un'autorità in grado di farla rispettare -è stato inevitabile: la concentrazione di beni e risorse nelle mani di pochi, i più furbi, i più avidi, i più scaltri, non certo i più competenti od intraprendenti.

  • Di fronte a questo scenario il distributismo si appella a tutti gli uomini di buona volontà, indipendentemente dalla loro appartenenza ideologica o confessionale: non possiamo continuare ad assistere indifferenti a questo vero e proprio massacro degli innocenti che il capitalismo ed i suoi sostenitori compiono sotto i nostri occhi. È quanto mai impellente oggi una vera e propria rivolta morale che rimetta i basilari principi della giustizia e dell'equità al centro della vite economico-sociale, mettendo definitivamente da parte il mostro ideologico del capitalismo e tutti i suoi nefasti derivati (cronica instabilità economica, impoverimento dei cittadini e degli Stati, predominio della finanza sul lavoro) ed aprendo la strada ad un ordine economico-sociale più prospero, naturale ed umano, che si chiama distributismo.
  • Questa rivolta morale non può essere né di destra né di sinistra né di centro ma deve essere ferma e risoluta perchè dal suo successo dipenderà il futuro della nostra libertà, quella vera, e quindi della nostra civiltà.

  • Per informazioni distributismomovimento.blogspot.com