venerdì 29 aprile 2016

Primo maggio: il lavoro non è una merce. No a capitalismo e social-comunismo, si al distributismo!


Primo maggio, una festa importante. Occasione, anche, per fare un bilancio e porsi alcune domande su quanto sta accadendo.
Qual è la condizione del lavoro oggi in Italia e nel mondo?
Uno sguardo obiettivo allla realtà, al di fuori di ogni condizionamento ideologico, ci impone una sola risposta: il lavoro versa oggi in una condizione tragica.
Perché? E’ molto semplice: il lavoro, dai modelli economico-sociali oggi dominanti, cioè capitalismo e social-comunismo, è considerato come una merce, un oggetto esposto, come tutto ciò che quantificabile, alle leggi del mercato, uno strumento di profitto che può e deve essere manipolato secondo le regole dello scambio affaristico.
La riduzione del lavoro a merce equivale, inevitabilmente, alla riduzione dell’autore del lavoro, la singola persona, ad oggetto interscambiabile, equivale quindi in ultima analisi alla cosificazione dell’uomo.
“Cose” in balia dei flutti del mercato appaiono infatti le migliaia di giovani laureati e ben preparati costretti ad impieghi precari ed aleatori nei call center della varie multinazionali, “cose” appaiono i milioni di giovani con una capacità professionale acquisita ma disoccupati, “cose” appaiono i migliaia di giovani usciti dalle università e costretti ad emigrare, abbandonando la propria terra e la propria famiglia.
La mercificazione del lavoro, presupposto di fondo di capitalismo e social-comunismo, non può infatti portare altro che a questo. Cosa si intende esattamente per mercificazione del lavoro? Si intende il fatto che, nel momento in cui capitale e lavoro si separano, il lavoro diventa per il capitalista un semplice strumento al servizio del proprio profitto, finalizzato alla massimizzazione dei guadagni. Il capitalista non ha più nessuna percezione della dimensione umana, qualitativa del lavoro stesso: questi aspetti diventano del tutto secondari rispetto agli imperativi contabili della resa monetaria finale. Il social-comunismo accetta di fatto questa situazione e tenta solamente di porre degli argini quantitativi, imponendo a chi detiene la proprietà dei mezzi di produzioni alcuni limiti, per continuare però poi a proporre e mantenere la separazione tra capitale e lavoro, concentrando nelle mani dello Stato tutto il capitale e quindi il potere decisionale. Chi lavora rimane una “cosa” nelle mani di qualcun altro che detiene il potere reale.Soluzione altrettanto nefasta, come la storia ci dimostra, di quella capitalista.
Che fare allora?
Molto semplice: puntare senza esitazioni alla riunione tra capitale e lavoro, al fatto cioè che chi lavora sia messo nella condizione di poter scegliere se essere anche proprietario dei mezzi di produzione, puntare ad una società di tanti proprietari-lavoratori quanto è possibile crearne.
Ciò vuol dire, rispetto a capitalismo e social-comunismo, restituire al lavoro la sua dimensione naturale di espressione della creatività umana, ciò vuol dire, rispetto a capitalismo e social-comunismo, optare decisamente per il distributismo.
Potenziare ed accrescere questa consapevolezza sarebbe un modo costruttivo di festeggiare degnamente il primo maggio, di incamminarci verso una riscoperta del ruolo reale che il lavoro dovrebbe avere, per una società più prospera, efficiente ed equa..
Il resto è solo sterile retorica auto celebrativa di ideologie ormai morte e sepolte, che suona anche paradossale e grottesca alla luce della reale condizione economico-sociale.

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